Una splendida Utopia
Si proietta lungo tutto il XXI secolo la coscienza di appartenere, noi esseri umani, a un’unica universale identità terrestre, dimostrando che ogni parte del nostro mondo, del nostro “villaggio globale” è interdipendente, interrelazionale, intersolidale, ossia interculturale. L’invito del filosofo Edgar Morin a educarci a un’appartenenza terrestre universale e di solidarietà tra i popoli è il punto di partenza per un’educazione alla cittadinanza globale e allo stesso tempo locale, come il borgo di Riace, che dà vita a una cittadinanza attiva, responsabile e capace di grandi trasformazioni in atto anche a livello mondiale, ossia le cosiddette sfide del terzo millennio per il diritto alla pace: la lotta alle povertà, il disarmo nucleare, la tutela del clima e dell’ambiente, per citarne alcune.
Il borgo di Riace è diventato un autentico modello di interazione tra culture e simbolo di pluralismo di appartenenze etniche e religiose, apprezzato in tutto il mondo. Il tutto grazie al sindaco Mimmo Lucano. Com’è riuscito a realizzare questa splendida utopia?
Questa splendida utopia è stata un processo spontaneo che è iniziato in un periodo in cui i temi dell’accoglienza e dell’immigrazione non erano così importanti come lo sono diventati nel corso degli anni e come lo sono diventati soprattutto anno dopo anno fino ai giorni nostri con questo governo che è l’epilogo di un percorso che ci ha fatto diventare tutte persone un po’ tristi. È il sentimento oggi più ricorrente in Italia. Siamo tutte persone tristi. Con la televisione e i giornali che ci danno continuamente notizie di persone che vengono segregate, persone che muoiono, bambini che non hanno possibilità di stare vicino ai propri genitori, storie di drammatica quotidianità. La disumanità della società della barbarie diventata legalità: è diventata parte determinante delle strategie politiche di questo governo. Il problema è che il colpevole non è solo il governo italiano, ma la maggior parte degli Stati europei che propone queste soluzioni: alzare le barriere e i muri. È un’Europa senza una luce di umanità. Le persone che arrivano non decidono loro di essere richiedenti asilo e rifugiati politici, ma lo decide un mondo che è ingiusto e che obbliga migliaia e migliaia di esseri umani a intraprendere i viaggi della speranza come unica soluzione alla sopravvivenza: questo è un concetto fondamentale su cui bisogna riflettere moltissimo, alcune volte anche rispetto a noi stessi, a quelle che sono le nostre abitudini, i nostri stessi stili di vita. Nonostante illusioni comuni della crisi, nonostante la recessione, nelle società occidentali vige un lusso sfrenato. E questo non possiamo permettercelo. Proprio perché le risorse sono concentrate nelle nostre aree. Poche centinaia di migliaia di persone detengono la ricchezza del mondo; invece la stragrande maggioranza vive in condizioni di semipovertà. Quindi l’asilo politico non è solo per motivi di persecuzioni etniche e religiose, ma quasi come costante si accompagna alla migrazione, alla miseria, alla povertà. Ci sono persone che vivono con meno di mezzo dollaro al giorno. Quindi porre un ostacolo alle migrazioni quando ci sono queste condizioni mondiali è impossibile.
Quali soluzioni possiamo proporre a questo incubo di disumanità?
La soluzione non è respingere gli essere umani per poi essere rinchiusi nei lager. Per noi occidentali l’importante è che i migranti non arrivino e non condizionino le nostre esistenze. Tutto questo è un concetto fondamentale che non ho imparato sui libri, ma ho imparato ogni giorno in questa mia personale esperienza con tutte queste persone con cui ho condiviso gli ultimi vent’anni della mia vita. Ero impegnato nella mia terra a cercare di capire come sul piano dell’impegno politico si potessero creare i presupposti per una prospettiva possibile di un futuro possibile per risolvere il fenomeno dell’emigrazione che è stato veramente il problema sociale della nostra terra, così come quello ancora più grave del condizionamento della criminalità organizzata e la cosiddetta “questione meridionale” che ancora oggi ci opprimono e non ci lasciano spazio per creare, costruire e immaginare un futuro possibile. Non avevo studiato per diventare un esperto delle politiche dell’immigrazione. Mi sono trovato per una casualità ad accogliere una nave sulle coste di Riace, con dei profughi: da quello sbarco mi sono avvicinato a questi esseri umani. Tanti elementi hanno fatto breccia nella mia sensibilità, per esempio la questione curda e le rivendicazioni politiche, che durano da più di un secolo, di questo popolo senza uno Stato, a cui viene impedito persino di parlare il proprio idioma. La questione curda è stato uno degli elementi che mi hanno coinvolto sul piano emozionale. Volevo in qualche modo essere amico dei curdi, essere utile per loro: andavo a casa loro, mangiavo con loro, ho condiviso tantissime cose. Ma soprattutto ho condiviso l’idea di raggiungere un senso di giustizia che è una prospettiva, è una prerogativa di tutti gli esseri umani a prescindere dalla provenienza e dalla nazionalità. Attraverso di loro ho capito che è importante che le nostre realtà non siano chiuse, ma destinate dalla storia ad accogliere chi ha un sogno nella propria vita. Nelle nostre realtà ci sono stati periodi di colonizzazione magnogreca, turca, saracena. I nostri luoghi sono stati crocevia di scambi, di incontri, di contaminazioni tra culture, tra popoli, tra etnie e questo ci permette di incontrare con soddisfazione e orgoglio e senza pregiudizi le altre persone.
L’emigrazione è un problema, l’immigrazione è una speranza.
Nelle strategie locali, abbiamo capito che nei luoghi dove si emigra, dove si è svolta la storia dell’emigrazione e dove sussistono forme di precarietà sociale, il fenomeno dell’immigrazione non è stato per noi un problema, al contrario è stata la speranza che si è inserita nell’oblio sociale. Nei silenzi dei borghi di Riace quasi abbandonati, l’arrivo delle persone, dei migranti in fuga con le ondate migratorie ha fatto ripartire l’idea di costruire una piccola comunità globale. È stato poi bellissimo, anche come messaggio estetico, vedere, specialmente i primi tempi, quando i curdi sono arrivati… E poi abbiamo aderito a vari programmi di accoglienza che nascevano in Italia come il Programma nazionale asilo dello SPRAR… e poi sono arrivate persone dall’Africa subsahariana, dalla Palestina, dall’Afghanistan e da tutto il mondo, soprattutto da queste provenienze di mondo dove vivono gli ultimi dell’umanità. E quindi era bellissimo osservare nelle stradine del borgo di Riace le donne del luogo vestite di nero – i costumi tradizionali di Riace erano questi – e persone, magari vedove, che si vestivano di nero e andavano in giro per quelle stesse stradine strette usando il proprio idioma, che per quelli che non sono del luogo era quasi incomprensibile. Si incontravano con donne arabe, con donne afghane con il burka, con donne dell’Africa subsahariana e anche con persone provenienti dalle più svariate parti del mondo. E poi abbiamo avuto esigenza di trovare soluzioni di integrazione e interazione tra le culture e questo ci ha fatto scavare nelle nostre identità per trovare anche nuove opportunità. Perché i progetti magari finivano e subentrava l’esigenza di capire come aiutare queste persone. La soluzione abitativa è stata quella più facile perché Riace, prima dell’ultima ondata di emigrazione, verso il Sud America e verso il Nord Italia, aveva quattromila abitanti; specialmente la parte del centro storico, il borgo rurale, aveva una dimensione di comunità contadina, un borgo che si fondava prevalentemente su un’economia agricola e un’economia basata sulla pastorizia. Le case erano piccoli ricoveri per gli asini che erano i mezzi di locomozione, gli unici. Non c’erano automobili. Questo ha portato al recupero di un’identità molto aperta, plurale, e a riconoscere nelle altre persone non un problema, ma con naturalezza una risorsa; e non per perseguire un credo politico e religioso, ma semplicemente perché l’accoglienza è un gesto spontaneo, come la felicità di conoscere e incontrare un’altra persona. Questo l’avevo da sempre capito. È uno degli elementi più importanti per strutturare il processo dell’accoglienza, proprio perché non è stata solo una persona, ma un’intera comunità a volere questo cambiamento.
Riace: “un’utopia possibile”?
Avevo capito che più le realtà non sono totalmente contaminate dalla società dei consumi che tende a far prevalere gli aspetti della materialità, della competizione e dell’egoismo, più sopravvive questo spontaneismo dell’animo. E questo è stato un elemento fondamentale. Nessuno ha mai detto “sono arrivati, ci rubano il lavoro”. L’apertura ci ripagava e nasceva il turismo solidale e nascevano queste attività di artigianato nelle cantine abbandonate dove lavoravano persone del luogo e rifugiati insieme. È uno scambio, una possibilità per le persone di Riace di conoscere il mondo da vicino attraverso i veri protagonisti, coloro che hanno subito la guerra, coloro che hanno spesso subito torture, vittime di guerre e conflitti armati. Questo ha portato a una conoscenza diretta e a una nuova dimensione e direzione della coscienza. Questa è la verità più forte che lascio personalmente, dopo aver fatto il sindaco per quindici anni, perché non sono importanti tutti gli aspetti delle opere pubbliche, ecc., ma lo è soprattutto aver avuto un ruolo nelle coscienze: è più difficile, ma così si dà un contributo a livello locale, e soprattutto a livello globale. Se oggi qualcuno mi chiedesse: “Dopo tanti anni, qual è l’opera pubblica più importante, qual è il motivo per cui le persone arrivano e sono attratte da quest’idea che sta dietro a Riace?”, io risponderei: “Non esiste un’opera pubblica che si può vedere con gli occhi, non esiste un monumento, qualche cosa di materiale, l’opera pubblica più grande è qualcosa che non si vede, è immateriale”. Però, io dico, se avere accolto persone in fuga dalle guerre, dai drammi dell’umanità, dalla miseria, in un periodo in cui nel mondo vengono proposte le soluzioni finali dei lager, dei campi di internamento, dell’odio razziale e fascista, è davvero l’opera pubblica più grande che si potesse realizzare, allora questa è Riace. A livello del messaggio estetico nel centro del borgo abbiamo costruito questo percorso di botteghe di artigianato dove si incontrava la magliaia di Herat, poi gli aquiloni di Islamabad, il vasaio di Kabul, dove c’era un ragazzino dell’Afghanistan che costruiva gli aquiloni e poi giocava con i bambini del luogo. Anche dal punto di vista estetico è stata veramente un’opera: come ha detto Wim Wenders, che ad essa ha dedicato un film, a Riace “ho visto l’utopia possibile”.
Il filosofo Edgar Morin elenca tra gli insegnamenti per un’educazione al futuro, il principio dell’identità terrestre, la “terrestrità”, base di un nuovo internazionalismo e di solidarietà tra i popoli. Come Riace rappresenta tutto questo? Riuscirà il suo “modello” a sopravvivere ai sabotaggi di cui è oggetto?
Penso che, nonostante l’evoluzione della storia, quello che è capitato negli ultimi due anni e quello che sta succedendo in Italia e nel mondo – nella premessa ho già parlato di qual è il mio pensiero a proposito del governo italiano e dell’atteggiamento degli Stati europei e degli Stati Uniti – e nonostante in tanti siano andati via, oggi Riace sembra una comunità tornata agli albori, a prima di quella nave, a prima di quello sbarco; magari anche la mia esperienza di amministratore locale sta volgendo al termine, ma non mi voglio rassegnare, non posso pensare né per me, né per gli altri, né per l’Italia che sia questo l’epilogo di una storia e di una società che sembra avviarsi verso la disumanità. Quello che è accaduto è orribile. Siamo persone un po’ più tristi. Perché in ogni attimo la nostra coscienza ci spinge a pensare. In questi giorni pensavo sempre a Siracusa. Ma com’è possibile che a un chilometro di distanza da qui si giochi sulla pelle degli esseri umani con questa determinazione crudele, incuranti che le persone possono morire, incuranti se ci sono donne, bambini, persone innocenti che hanno come unica soluzione quella di cercare di sopravvivere: arrivano e noi li obblighiamo a vivere un ulteriore dramma. Questo è un incubo. Credo che un giorno si dovranno vergognare di aver compiuto questi misfatti, queste crudeltà. Allora siamo persone tristi. Non posso immaginare e non posso neanche semplicemente accettare che questa sia l’unica dimensione e soluzione possibile. Oggi è così. Ma domani credo che, di nuovo, il vento ci porterà a sperare in un mondo migliore.
Noi apparteniamo a una comune Madre Terra e a un’unica famiglia umana universale e solidale. Esiste un’unica razza, quella umana. Questo sostenevano Einstein e il noto attivista pacifista e nonviolento Vittorio Arrigoni barbaramente assassinato a Gaza dai poteri forti. Il motto “Restiamo umani” è un imperativo categorico per Mimmo Lucano?
Sì. Il motto “Restiamo umani” è un mio imperativo categorico. Non ho mai conosciuto Vittorio Arrigoni ma ho conosciuto la madre, Egidia Beretta Arrigoni. L’ho conosciuta in una serata pubblica in cui ci hanno attribuito un premio e non mi posso dimenticare di quella iniziativa. Emotivamente sono vicino alla storia di Vittorio Arrigoni. Perché Vittorio è andato in Palestina? Era spinto da questa fame di umanità e non poteva fare e dire meglio. Quando si pensa a Vittorio Arrigoni con quelle due parole, esse valgono più di un discorso e di un comizio di ore e ore. Due parole, due parole bastano: “Restiamo umani”. Come diceva un teologo della Liberazione, Gustavo Gutiérrez: “La vita è un no o un sì a Dio” anche se noi abbiamo una visione e una missione da laici. Questa è un’estrema sintesi. È inutile che ci giriamo dall’altra parte, con le nostre indifferenze. L’indifferenza è peggio che approvare chi vuole la disumanità. Chi non si schiera o rimane indifferente non ha guadagnato qualche cosa. No. È un atteggiamento peggiore. Come diceva qualcuno: “La mafia uccide, il silenzio anche”. Si chiamava Giuseppe Impastato. Questa fame di umanità alla fine ci spinge ad avere questa speranza. Cos’altro ci rimane? Questa domanda la rivolgo a lei Laura.
Laura: “Ci rimane la fede nell’umanità, la speranza di un mondo più umano, giusto e libero”.
La conoscenza della nostra era planetaria e della comune identità terrestre si spiega in una fratellanza universale e solidale e nell’appartenenza a una molteplicità di genti, culti e culture. Come si progetta e proietta Riace in questa “direzione ostinata e contraria”?
Quello che è successo per alcuni aspetti sembra che sia stata tanta casualità con tante combinazioni. Perché in tantissimi luoghi ci sono progetti SPRAR, con accoglienza, ma fin da subito Riace, forse per come sorge, quasi in modo romantico, con questo veliero che all’alba, in una mattina d’estate, arriva con le persone che fuggono dalle guerre e che poi trovano spazio in un borgo abbandonato, sembra il racconto di una favola. Ma purtroppo l’epilogo è stato davvero tragico, proprio come se avesse dato fastidio tutto questo. Riace può permettere di creare un’alternativa alla disumanità, può permettere che questo messaggio diventi qualcosa di concreto e ideale. Che permetta a tutti di poter dire: se è stato possibile in quel luogo dove si vivono queste condizioni e dimensioni di fortissima precarietà con le emigrazioni, con il latifondismo agrario, con l’emarginazione e la rassegnazione sociale, con le mafie, allora è possibile ovunque. Se è possibile nei luoghi dove si emigra, è possibile ovunque. Allora non ci sono alibi. Perché Riace non è una teoria, è una storia vera. Fatta di persone, uomini, donne, bambini. Di persone che hanno cercato di creare una comunità globale e che hanno dimostrato che la convivenza tra esseri umani che provengono da luoghi diversi e con diverse etnie e religioni è possibile. E che insieme è meglio. È possibile quasi connettere le varie identità e il riscatto dello stato sociale e dello stato umano. Riace ha dimostrato questo. Quindi anche per il futuro bisogna ripartire da quest’idea. È una speranza per l’umanità.
Come ha accolto la notizia del Premio Nobel per la Pace 2017 a ICAN rete internazionale per il disarmo nucleare universale che promuove il progetto storico del diritto internazionale, ossia l’abolizione degli ordigni nucleari? Quindi condivide l’analisi che la minaccia nucleare costituisce la priorità delle priorità?
Sì, condivido l’analisi che la minaccia nucleare costituisce la priorità delle priorità. La pace è la condizione essenziale. Se nel mondo non esiste la dimensione della pace, tutto il resto non può esistere. E ovviamente condivido il riconoscimento del Premio Nobel per la Pace a ICAN per il disarmo nucleare universale.
Il Comune di Riace, per volontà popolare, potrebbe richiedere l’affiliazione al Premio Nobel per la Pace ICAN per apportare a questa realtà il suo spirito di concretezza umile, ma insieme carico di ideali?
Sì, certamente. In questo momento non sono sindaco. Sono un sindaco sospeso. Il 26 febbraio 2019 ci sarà una decisione in Cassazione e almeno nei prossimi mesi spero di poter tornare a essere sindaco. E questo della filiazione a ICAN è uno degli atti che subito sottoscriverei. Così come vorrei sottoscrivere subito l’uscita dallo SPRAR come soddisfazione per non avere a che fare con questo governo italiano. Sono delle cose che farei subito.