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Vent’anni di palchi, dischi e coerenza: I Vintage sono una delle realtà più solide e pensanti dell’underground italiano.
Con “Contro la Società Securitaria”, tornano con un brano che è al tempo stesso una canzone e un manifesto politico, una riflessione lucida sul presente in cui la paura è diventata merce e il controllo una nuova forma di abitudine.
Tra citazioni di Foucault, Debord e Arendt, e un linguaggio che mescola filosofia e rabbia punk, la band riafferma il valore della musica come spazio di libertà, resistenza e pensiero critico.


Intervista

“Contro la Società Securitaria” è definita una canzone-manifesto.
In un’epoca in cui la paura viene venduta come prodotto, pensate che la musica possa ancora essere uno strumento di liberazione politica e culturale — o è destinata anch’essa a essere inglobata nel sistema che critica?

La musica la fanno i musicisti ed è quindi tutto in mano nostra, qui e adesso: la questione del securitarismo che abbiamo voluto portare alla luce, come altre ugualmente urgenti sul piano politico e sociale, saranno oggetto di messa in discussione solo se sapremo essere coraggiosi, esponendoci magari anche a delle critiche, pur di parlarne nelle canzoni.


Nel testo citate concetti che rimandano a Foucault, Debord e Arendt.
Quanto è importante per voi mantenere un linguaggio colto e filosofico dentro una forma espressiva diretta e viscerale come il punk rock?

È fondamentale, è quello che ci piace e in un certo senso ci identifica: ogni tanto ci capita di modificare la bio di Instagram scrivendo “punk per intellettuali”, un’etichetta che ci hanno appiccicato ad un concerto, che ci fa sorridere ma che ci rappresenta anche abbastanza bene – e qui ci auto-citiamo aggiungendo “quali intellettuali con le lauree triennali” XD


La vostra storia è una delle più longeve e coerenti dell’underground italiano.
Dopo vent’anni di concerti e dischi, che significato assume oggi per voi la parola “indipendente”? È ancora una scelta o è diventata una necessità?

Siamo sempre più convinti che sia una scelta perché le dinamiche del mercato sono tutt’altro che insondabili e oscure, e basta avere zero scrupoli e molti peli sullo stomaco per andarci incontro a tutta velocità.
Essendo una parola piuttosto abusata, spesso ci troviamo a sostituirla con “libertà” che spiega meglio la condizione di chi non ha letteralmente niente da perdere e può quindi permettersi di fare musica davvero imprevedibile, quindi degna di nota.


Nel video del brano emerge un’estetica onirica e claustrofobica.
Quale immagine o messaggio visivo volevate lasciare allo spettatore? È più una denuncia o un invito a rompere le “gabbie” interiori che questa società costruisce?

Il video è stato girato nella galleria che ha ispirato il ritornello della canzone, una riformulazione della frase conclusiva de “Il Capitale” di Marx (“Il proletariato non ha nulla da perdere all’infuori delle proprie catene”) che un writer di nostra conoscenza, che ha chiesto giustamente di rimanere anonimo, ha scritto su quei muri, e ha riscritto ad ogni cancellazione.
È qualcosa di potentissimo, una forma d’arte pura che abbiamo voluto omaggiare trasferendone la forza resistente (in senso espressivo ma anche politico) in musica.
Il fatto che si tratti di una galleria, un “non-luogo” che rappresenta a pieno il vuoto esistenziale di chi “passa e non guarda” ripetendo ogni giorno lo stesso tragitto, non fa che rendere quel messaggio ancora più forte e puntuale.

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