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“Heka” dei Katadeo è uno di quei dischi che arrivano senza fare troppo rumore, ma poi ti restano incollati addosso come il sale sulla pelle dopo un tuffo nel Mediterraneo. Non è solo un EP, è una dichiarazione d’intenti, un rituale sonoro in cui la Sicilia non è semplicemente uno sfondo, ma una protagonista viva, mitica e mutante. I Katadeo ci portano dentro un mondo dove il dialetto non è nostalgia, ma materia viva, moderna, e l’elettronica non è fuga, ma ritorno.

Ascoltando “Heka” ci si sente un po’ sulle rive di un tempio sommerso, tra battiti tribali, synth stratificati e voci che sembrano salmodiare storie millenarie, pur restando straordinariamente ancorate al presente. È musica che pulsa, respira e soprattutto racconta. Non ci sono hit facili o ritornelli da playlist: c’è piuttosto un flusso, un ritmo che ti prende alla gola e poi ti lascia andare, con gentilezza ma senza chiederti il permesso. La produzione è curata con una precisione: niente è fuori posto, eppure tutto sembra sul punto di esplodere in qualcosa di altro, di nuovo.

Quello che colpisce di più è il modo in cui i Katadeo giocano con i contrasti: la luce calda della loro terra e l’ombra delle sue contraddizioni, la sacro e il profano, l’intimità e l’epica. Ogni traccia è un piccolo rito, un passaggio, un invito a mettersi in ascolto profondo. “Heka” non chiede di essere capito: chiede di essere vissuto.

In un panorama musicale che spesso si accontenta del “già sentito”, i Katadeo alzano la posta in gioco e scommettono tutto su una visione personale, coraggiosa e stratificata. Se siete alla ricerca di qualcosa che vi scuota l’anima, questo EP fa per voi. E no, non è solo una questione di suono. È una questione di fede, di carne, di terra. Una questione di magia.

 

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