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“Sydereal” rende omaggio a Syd Barrett e alle sue sperimentazioni visionarie. Come hai trovato un equilibrio tra il rispetto per il suo stile e la tua identità artistica unica?

Credo sia avvenuto nei tempi e nei modi per me più naturali: prima di tutto attraverso l’amore per i Pink Floyd, uno dei miei primissimi ricordi musicali dell’infanzia, e la ricerca di tutta la loro discografia durante l’adolescenza, partendo dalle super hit fino a giungere a quell’album (“The Piper at the Gates of Dawn”) e quei singoli di esordio (“Arnold Layne” e “See Emily Play” per esempio) così diversi nello stile e nelle atmosfere da tutto il resto della loro produzione.

Pensavo, in questa musica c’è un genio. Stavo scoprendo Syd Barrett. Negli anni a seguire mi sono trovato spesso a suonare dal vivo brani dei Floyd, coprendo quasi tutta la loro discografia, studiandoli a lungo e tentando di avvicinarmi il più possibile a quelle timbriche favolose, mentre parallelamente andavo avanti nella ricerca del mio suono e della mia identità.

Nel 2019 ero sotto contratto con la Wall of Sound e avevo già delineato abbastanza i tratti della mia elettronica, quando a sorpresa ricevetti un invito da parte di Nino Gatti (Lunatics) e Dario Antonetti: avrei rivisitato “Love You”, un brano di Syd, destinato a una compilation approvata dalla famiglia Barrett! Accettai, ero emozionantissimo ma senza un briciolo di timore reverenziale. Sentivo l’amore e il rispetto artistico fluire liberi attraverso i suoni a mia disposizione, senza alcuna sovrastruttura. Ero consapevole di trovarmi nel momento giusto per farlo, ma non ci pensavo neanche poi così tanto! Dopo qualche tempo dall’uscita della compilation, ho sentito la necessità di rivisitare altre composizioni di Syd: riunirle in questa piccola raccolta ne è stata la naturale conseguenza.


L’EP esplora sonorità ambient, indie-rock e psichedeliche. Qual è stato il processo creativo dietro la costruzione di queste texture sonore? Ci sono stati momenti particolarmente ispiratori durante la produzione?

In generale desideravo un suono organico, vitale e immersivo nel mood di ciascuno dei brani, e di volta in volta ho seguito un procedimento diverso. Ho creato strati di voci e di sintetizzatori, ho giocato con il rumore e con i contrasti timbrici, ad esempio su “Love You” tra muri di chitarre distorte e le note delicate del glockenspiel. Sempre su “Love You” ho programmato la batteria elettronica con gli stessi cambi di tempo della versione originale, dove la ritmica si adattava spesso in modo “avventuroso” sulla traccia – forse la traccia guida – di voce e chitarra di Syd. Hai la strana sensazione che tutto sia caotico o difettoso, ma attraversato da un’aria leggera, innamorata, spensierata.


Hai descritto Syd Barrett come un esempio di libertà creativa capace di evocare qualcosa di cosmico. Come questa visione si riflette nel messaggio che vuoi trasmettere con “Sydereal”?

Secondo me le storie raccontate da Syd sembrano arrivare da altri mondi, anche quando parlano di tigri, elefanti o della vita quotidiana. Sento assenza di limiti, una percezione quasi costante del cosmo, senza il bisogno di parlarne esplicitamente.


Il tuo percorso musicale ti ha portato a collaborare con artisti e progetti di diversa natura. In che modo queste esperienze hanno influenzato il tuo approccio alla reinterpretazione di brani iconici come “Astronomy Domine” o “Golden Hair”?

Credo che in ogni collaborazione siano fondamentali le affinità elettive, che si tratti, come nella mia vita, di musica o videoarte. Un aspetto derivato da queste affinità è la fiducia nell’accogliere gli inviti ad abbandonare gli schemi. La curiosità unita a questo bagaglio, soprattutto emozionale, mi ha spinto a cercare una dimensione “visiva” dei brani, costruendo l’arrangiamento di “Astronomy Domine” principalmente sulle voci (una sessantina tra naturali e processate elettronicamente) e trattando i suoni di “Golden Hair” come se fossero i colori in un dipinto impressionista.


L’artwork di copertina sembra racchiudere un significato simbolico, con il circuito elettronico attivato da un diamante. Puoi raccontarci la storia e l’idea dietro questa immagine e come si collega al concetto dell’EP?

Sono cresciuto amando le copertine create, su tutti, da Storm Thorgerson o da Peter Saville: per me, oltre l’immagine, erano “il brano in più” di un album. Questa è la ragione per la quale mi occupo sempre direttamente dell’artwork, sia in fase creativa che realizzativa.

Nel caso di “Sydereal” ho immaginato lo schema di un microchip: simmetrico, circolare, apparentemente perfetto. Ma l’unico modo per farlo funzionare, o risuonare se preferisci, non ha a che fare con l’elettronica. Come in un misterioso procedimento alchemico, il circuito si attiva collocando al centro di esso un diamante, ovvero Syd, il “crazy diamond” dei Pink Floyd.

Mentre disegnavo questa copertina mi sono anche ricordato del SID, il chip che generava il suono dei computer Commodore 64. Una coincidenza perfetta, ho pensato, e ho avuto l’impressione di trovarmi sulla strada giusta!

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