Aftersat, un nome che rimanda a sonorità che sanno di alt-rock, di anni Novanta e di una certa ricerca della “rottura” che in effetti ritorna nella discografia (seppur esigua fin qui, ma c’è tempo) della band campana, che tuttavia riesce a dare a tale “rivoluzione” un’impianto che rimanda al folk, al tradizionale, a tutto ciò che sa di radice: perché, si sa, ogni ramo che sa spingersi verso altezze vertiginose e nuove non può che affidarsi a radici profonde, salde, antiche.
E se il futuro ha un cuore antico, gli Aftersat paiono aver ben compreso la lezione della post-modernità: gira che ti rigira, ti ritrovi a fare i conti con ciò che sta “alla base”, con le origini quasi rituali di un gesto che diventa musica per poi trasformarsi, nelle canzoni degli Aftersat, nuovamente in rito. Una collettività intera sembra fremere dietro le due voci, maschili e femminili, che guidano la poesia di “Terra c’accide”, inno liberatorio e allo stesso tempo lamento irrefrenabile verso un nido che non ha mai smesso di essere inospitale, forse non ha mai cominciato ad essere ospitale.
Una casa che diventa rovo di spine e croce pesante poggiata sulle spalle di chi non smette di amare il suo carnefice, e allo stesso tempo finisce con il chiamarlo “madre”: c’è tutta la questione meridionale, il dolore dell’emigrante del III millennio, una strana sensazione di “dejavu” che colpisce il cuore prima che le orecchie. E quando arriva alle orecchie, lì la forza detentrice del dialetto fa la sua parte, e ti avvinghia in una tammurriata sanguinante che fa ballare sulle macerie, senza perdere mai la dignità della resistenza resiliente.
C’è anche un video, di “Terra c’accide”, che abbiamo il piacere di ospitare oggi in anteprima: ne abbiamo approfittato per fare qualche domanda alla band, che si è mostrata molto disponibile al prestarsi al nostro fuoco incrociato.
Aftersat, è un piacere ritrovarvi su queste colonne. Ci ha colpito fin da subito il vostro ultimo singolo, “Terra c’accide”: un lamento a cuore aperto, di fronte al quale è impossibile rimanere impassibili e che finisce col raccontare un dolore che colpisce nel profondo perché autentico, reale. Ecco, vorremmo che ci raccontaste cosa significa, nel 2023, essere “figli del Sud”, e perché sia importante “cantare” certi dolori.
Significa essere assetati e affamati di riscatto emotivo, morale e sociale, perché tutto quello che finora abbiamo avuto non ci basta! Il nostro canto è una forma di esorcismo, un rituale primordiale che connette l’uomo al cielo, all’infinito.Nonostante apparteniamo a una generazione in cui i nostri genitori hanno faticato, costruito e lasciato spazio e opportunità ai propri figli in contesti socio-culturali “aperti”, si evidenzia l’esigenza di realizzare qualcosa di autentico, che provenga dall’esperienza vissuta e dalla relazione con la “terra c’accide” sperimentata sulla propria pelle, sensibile anche ad altre realtà e che abbraccia contesti più periferici.
Il vostro pare essere un approccio molto “militante” all’arte: insomma, c’è un racconto nelle vostre canzoni che permette di mettere in luce quella che potremmo definire una vera e propria “geografia dell’anima”, che diventa “politica” perché autentica, urgente. Quali sono, secondo voi, le caratteristiche che una “canzone” degli Aftersat deve avere, per non essere “cestinata”? Definireste “impegnata” la vostra idea di musica?
La scelta di una lingua “diversa”, il napoletano, è di per se denuncia della presenza viva di persone provenienti dal Sud in tutta al penisola, un Sud che anela ad essere un tutt’uno conservando inalterate identità e radici.
Racconta di una collettività e delle sue relazioni contrastanti con il territorio d’origine che parte dai Campi Flegrei per estendersi a tutte le periferie del mondo e ai suoi esclusi.
Oggi, invece, sembra sempre più che gli artisti tendando a rifugiarsi in “canzoni semplici”, e in storie facilmente condivisibili, quasi “anonime” e allo stesso tempo “indossabili” da tutti. Vi percepite “differenti” rispetto alla scena mainstream di oggi? E se sì, in cosa, e perché?
Sì, ci sentiamo differenti ma senza farne una questione legata alla qualità e al genere di ciò che si scrive ma porterei l’attenzione su una diversa sensibilità e soprattutto al percorso che finora ha caratterizzato la produzione delle nostre pubblicazioni.
Saremmo contenti se un nostro “canto” potesse “vestire” coloro che ci ascoltano e partecipano ai nostri concerti.
Anche la scelta della lingua del vostro cantato credo certifichi la ricerca di una certa “verità”, di una spontaneità che possa farsi quasi “rivoluzionaria”, nel mondo musicale plastificato di oggi. Anche se la vostra canzone sembra già rispondere a questa domanda, mi piacerebbe chiedervi che rapporto avete con le vostre origini.
Così come descritto nei testi è un rapporto controverso seppur viscerale e necessario, l’albero guarda in alto avendo le radici ben piantate nella terra. Lo stesso vale per Aftersat, raccogliere il nutrimento, a volte avvelenato, delle origini per “sputarlo” fuori. Anche dal punto di vista sonoro sono molto forti i legami con la tradizione, l’imbastitura iniziale di “Terra c’accide” ad esempio, era un richiamo alla tammurriata seppur con un ritmo differente, con il cantato cantilenante.
Il linguaggio musicale, invece, pare figlio di un approccio particolare, diverso e contaminato da ascolti quasi post-rock. Quali sono i vostri principali riferimenti musicali?
Dalla new wave italiana degli ’80 al grunge di Seattle dei primi ’90 passando dal primo Pino Daniele, i Musicanova e giù fino ai Tuareg.La sessione ritmica vede come punti di riferimento i grandi Benny Greb, Chris Coleman, Fabio Rondanini.
Prima di salutarci, vista l’occasione di questa nostra chiacchierata, dateci anche qualche “retroscena” della realizzazione del video… come nasce l’idea del clip?
Il videoclip è targato Produzioni dal Bunker e nasce da un’idea di Serena Petricelli.
L’intento è di dar voce a tutti coloro che sono stati costretti ad abbandonare la propria terra di origine, chi per lavoro, chi per studio, chi per amore. Per questo abbiamo deciso di coinvolgere attraverso una call sui social chiunque abbia vissuto o si trovi in questa situazione, chiedendo di condividere con noi video di ciò che ritengono “casa”. Questi diventano così, nel videoclip, i ricordi di Damiano, il protagonista, che lo tengono intrappolato alle proprie origini e da cui cerca disperatamente di fuggire.
Salutiamoci a modo vostro, magari lasciandoci un “augurio”, quello che preferite… Lasciateci “il segno”!
Che il “Fauno metropolitano” dalle campagne flegree possa, attraversando spiaggia, mare e solfatare, arrivare tra le pieghe del cemento e liberare il proprio canto!