Skip to main content

𝗥𝗼𝘆 𝗣𝗮𝗰𝗶: “𝗡𝗼𝗻 𝘃𝗼𝗴𝗹𝗶𝗼 𝗱𝗶𝘃𝗲𝗻𝘁𝗮𝗿𝗲 𝗹𝗮 𝗰𝗼𝗽𝗶𝗮 𝘀𝗯𝗶𝗮𝗱𝗶𝘁𝗮 𝗱𝗶 𝗺𝗲 𝘀𝘁𝗲𝘀𝘀𝗼. 𝗔𝗶 𝗴𝗶𝗼𝘃𝗮𝗻𝗶 𝗱𝗶𝗰𝗼: 𝗱𝗶𝘀𝘂𝗯𝗯𝗶𝗱𝗶𝘁𝗲 𝘀𝗲𝗺𝗽𝗿𝗲”

Per trovare un altro titolo così, Tromba, bisogna tornare ai tempi degli Squallor, a un loro disco del 1980. “Ma quella era musica demenziale, per quanto geniale e tecnicamente eccellente. Io invece sono serissimo”. Parola di Roy Paci, classe 1969 da Augusta, provincia di Siracusa, “forse l’unico che può permettersi di intitolare così una canzone senza dare scandalo”. Si vedrà. Intanto il pezzo c’è, si chiama appunto Tromba ed esce il 25 aprile, assaggio di un progetto in cui il trombettista e cantante siciliano, fondatore degli Aretuska, riprenderà lo stile di strada e cosmopolita di Toda joia toda beleza, il suo successo del 2007. Intanto riparte dal culto di uno strumento che, per lui, è un marchio di fabbrica. “Tanto che alla mia tromba ho anche dato un nome: ormai è risaputo, si chiama Sofia”.

C’è qualcosa che riesce a dire con la tromba ma non a parole?
“Il maestro è Fela Kuti, che usava gli strumenti per cambiare il mondo. La chiave è lo sberleffo. A inizio anni duemila, in tour con Manu Chao nel progetto Radio Bemba, passammo a Milano: suonai in piazza Pinocchio, per dedicarlo ai politici di allora; un modo per dir loro che erano dei bugiardi”.

Lo pensa ancora?
“Anche peggio. L’etica e il senso di realtà è scomparso dal 90% della classe politica di oggi. Tutto si è spezzato a Genova, nel 2001. Sta a noi ricostruirlo, ma è difficile. Abbiamo smesso di credere nella politica come motore del cambiamento. E l’ascensore sociale si è rotto, lo stesso che anni fa ha invece permesso a me, di famiglia umile, di arrivare fin qui. Oggi, e lo dico da padre, i ragazzi hanno paura della ‘politica’ proprio come termine. Ma non è colpa loro. Lo è di chi ci ha fatto perdere questa speranza”.

Ha un prezzo battersi?
“Io sono sempre stato dalla parte dei lavoratori, degli ultimi, degli sfruttati. Dalla parte delle nostre sorelle e dei nostri fratelli che arrivano a Lampedusa: porterei lì le classe in gita, si figuri. Ma ciò per cui ho sempre pagato davvero pegno è l’opposizione alle mafie, con minacce e ritorsioni. E ne ho ricevute a tutti i livelli. Ai tempi in cui Cuffaro era presidente della Sicilia fui invitato a un evento della Regione, dove dal palco citai di Falcone e Borsellino. I suoi andarono su tutte le furie, arrivando a minacciarmi, anche fisicamente, per capire chi mi avesse ‘autorizzato’. Come se serva il permesso per parlare di loro, o di Peppino Impastato. È di fronte a politici così che mi viene ancora più voglia di stare dalla parte dei giovani. La loro è una grande risposta, compresa la trap”.

La polemica sulla presunta violenza di certi testi la tocca?
“Ci sono testi e testi. Quelli violenti sono ovunque, così come le belle canzoni. Non è una questione di rap o non rap. Marracash, tra i tanti, è una penna geniale. Tra i più giovani, Kid Yugi è un rapper di vicino Taranto con un talento incredibile nel raccontare il disagio di chi è cresciuto all’ombra dell’Ilva: abbiamo provato a invitarlo al concerto, non poteva, magari sarà per il 2026. Allo stesso modo, tra i generi nobili come il jazz, o le presunte età dell’oro della musica, ci sono artisti scarsi”.

Lei, alle nuove generazioni, che consiglio darebbe?
“Quello che do a me stesso: disubbidire, sempre. La disobbedienza civile è la risposta. Pur con tutti i limiti che impone la Chiesa, Papa Francesco è stato, per esempio, un disubbidiente. La realtà dice di voltarsi dall’altra parte? Be’, noi vogliamo ancora, orgogliosamente, pensare agli ultimi”.

Lascia un commento