Il cantautore e regista napoletano STRE torna con “Spaventapasseri”, un nuovo singolo che fonde poesia, introspezione e libertà espressiva. Dopo un percorso segnato da continui esperimenti tra musica e immagine, STRE firma un brano che racconta la solitudine, la vulnerabilità e la forza di chi osserva il mondo da fermo ma con occhi attenti — come uno spaventapasseri nel vento.
“Spaventapasseri” è una canzone che parla di sé e di tutti: un invito a rallentare, ad accettarsi, a convivere con le proprie paure. Nella voce e nelle parole di STRE convivono ironia e malinconia, leggerezza e profondità, come in un dialogo continuo tra musica e cinema. Il videoclip, diretto dallo stesso artista, ne amplifica la potenza visiva, trasformando la maschera dello spaventapasseri in un simbolo di autenticità e accoglienza.
L’intervista
DOMANDA 1
“Spaventapasseri” nasce da un’intuizione improvvisa, ma sembra parlare a tanti: quanto c’è di autobiografico in questo personaggio fermo che osserva e sente tutto?
Tutto. Direi che lo Spaventapasseri è la descrizione più onesta di come mi sono sempre sentito e di cosa cerco nel mondo: un po’ voglio stare da solo, un po’ mi sento solo, e allo stesso tempo ho la necessità di non esserlo. È una sensazione che porto dentro da sempre: quella di essere lì, fermo, ma con la testa che non si ferma mai.
Tutte le mie canzoni sono autobiografiche, questa ancor di più. Da piccolo mi affascinava molto la figura dello Spaventapasseri, mi piaceva tantissimo ne Il Mago di Oz: mi incuriosiva la sua tristezza, la sua fragilità, quella cosa per cui “spaventa” ma in realtà è il primo ad avere paura. E credo che, in un certo senso, già lo sapevo che prima o poi ci sarei arrivato: che avrei finito per incarnare proprio quella figura.
Lo Spaventapasseri, nel mio immaginario, è anche un modo per raccontare il mio rapporto con l’esposizione pubblica. Io non sono un cantautore “da social” nel senso classico: non amo pubblicare se non ho qualcosa da dire. Mi piace condividere quando c’è una canzone, un progetto, ma non me ne frega davvero nulla di far vedere come mi sono vestito o cosa ho mangiato a pranzo.
Per questo, il personaggio dello spaventapasseri è anche una provocazione. Nel trailer che ho pubblicato prima dell’uscita del brano dicevo: “Volevate un personaggio? Eccovi accontentati.”
Era un modo ironico per dire che non voglio diventare una maschera social, ma se proprio ne devo indossare una, almeno che sia mia, sincera, coerente con ciò che sono.
Mi hanno spesso percepito come “fermo”, forse perché non mi vedono costantemente online, ma in realtà io osservo tutto. Ascolto tanta musica, guardo tantissimi film, guardo il mondo, mi informo, sono curioso. Questo non significa che mi piaccia tutto, ma mi interessa capire, vedere, sentire.
E lo spaventapasseri, in fondo, è anche questo: una figura che osserva, che assorbe e che cerca di allontanare cosa vorrebbe volasse via; col tempo ho capito che non mi interessa arrivare a tutti, mi interessa arrivare a tanti. Non voglio essere compreso da chiunque, voglio esserlo da chi è in sintonia con ciò che faccio e che sono. E quando capita, quando qualcuno mi capisce davvero, è come se mi si illuminasse il cuore. È un riconoscersi a vicenda.
Dentro Spaventapasseri oltre a tanti frammenti di me e ci sono anche scheggia di cose che amo: Batman, Gandhi, Harry Potter, The Nightmare Before Christmas… sono riferimenti che fanno parte della mia formazione emotiva e immaginativa.
Quindi sì, lo Spaventapasseri sono io. Di paglia ma anche di carne e ossa.
DOMANDA 2
Nel videoclip interpreti tu stesso lo spaventapasseri, tra leggerezza e inquietudine. È più un modo per proteggersi o per mostrarsi senza filtri?
Senza dubbio per mostrarmi senza filtri.
Non è una maschera che mi protegge “da fuori”, ma un modo per raccontare il mio “dentro”.
Io mi sono sempre sentito “fuori contesto”, fin da quando ero ragazzino. Ho frequentato ambienti scolastici che non mi rappresentavano e questa cosa mi ha segnato, soprattutto nell’adolescenza.
Lo spaventapasseri, per me, è la rappresentazione di quel disagio. Mi permette di mostrarmi in una forma vera, anche se è una maschera.
Paradossalmente, per certi versi, quella maschera mi assomiglia più del mio volto scoperto.
Chi ascolta la mia musica capisce spesso più di me di quanto non facciano persone che mi conoscono nella vita quotidiana. Perché lì dentro non mi nascondo, anzi: mi espongo completamente.
Le braccia aperte dello Spaventapasseri sono la chiave di tutto.
Nella canzone dico proprio: “Ho le braccia aperte perché voglio un abbraccio.”
Non sono aperte per spaventare ma per accogliere.
È la metafora più sincera che potessi scrivere: vorrei un abbraccio, forse un giorno anche da chi magari non mi capisce.
E nel finale del video, quel gesto appare. È un modo per dire: “Eccomi, questo sono io. Se ti va, abbracciami anche se non mi capisci del tutto. Abbracciami anche se sono diverso da te — anzi, fallo proprio per questo.”
DOMANDA 3
Il brano gioca con ironia e malinconia, ma anche con il tempo: rallentare, osservare, aspettare. In un mondo che corre, come si coltiva la lentezza senza sentirsi “fuori posto”?
La verità? Non lo so, perché io mi sento ancora tanto fuori posto.
Viviamo in un’epoca in cui tutti hanno sempre qualcosa da dire. E attenzione: non discuto che le persone abbiano tanto da dire — anzi, ne sono convinto. Il problema è che ce l’hanno sempre. Sempre.
Secondo me bisognerebbe parlare solo quando si conosce bene la materia, quando si sa quello che si sta dicendo. E ancora di più, quando quello che si dice può essere utile a qualcosa: anche solo a far riflettere.
Viviamo in un mondo dove persino le canzoni virali vengono ascoltate solo per dieci secondi, e la gente si accontenta di quello. È un mondo che corre così tanto che si è dimenticato come si ascolta, come si guarda, come si aspetta.
Divoriamo i contenuti senza neanche digerirli, e nel frattempo ne stiamo già consumando altri.
In questo sistema, io sarò sempre fuori posto. E va bene così.
Coltivo la lentezza semplicemente non partecipando a questa corsa.
Non uso i social quando non ho niente da dire, non voglio “esserci sempre”.
Preferisco esserci bene, con qualcosa che abbia senso.
Spaventapasseri è un modo per ribaltare il concetto: non voglio essere un personaggio, ma un cantautore, percepito per quello che è, non per come si mostra quando fa il “personaggio”.
Nel mio lavoro la lentezza la coltivo dandole un valore.
Il mio prossimo disco, per esempio, l’ho registrato prendendomi il tempo di cui avevo bisogno, mettendo dentro ogni sfumatura, ogni riferimento, tutto ciò che amo.
Ho capito che non posso essere una sola cosa: ascolto tanta musica, mi piacciono mondi diversi, e limitarli sarebbe come rinnegarmi.
Spaventapasseri ha dentro ironia e malinconia, due anime che convivono. Io sono così: lucido, caotico, sempre curioso, sempre in ascolto.
E sì, forse questo mi tiene lontano dai meccanismi “giusti” del mercato, ma preferisco restare in piedi, anche se fermo.
Come uno Spaventapasseri: fermo, ma che non si piega.
DOMANDA 4
Da musicista e regista, riesci a unire due linguaggi diversi in un’unica visione. Quando scrivi una canzone, pensi già alle immagini o le immagini arrivano dopo, come un’estensione del suono?
Intanto ti ringrazio, è bello sentirsi dire che riesco a unire i due linguaggi, perché è un equilibrio che cerco molto.
E grazie anche per la domanda, perché è un tema a cui tengo molto.
Quando scrivo una canzone, non penso mai al video. Mai.
Non sono un “Rovazzi” per intenderci, che crea quasi la canzone per il video. Io le canzoni le scriverei lo stesso, lo faccio da quando ero bambino e lo farò finché campo. Per me il video arriva dopo: è un modo per imprimere la canzone nel tempo, per darle una visualizzazione visiva che la fissi nella memoria.
Lo so, i video musicali, oggi, sono totalmente morti e fuori moda; lo dimostrano tante cose, la chiusura MTV di qualche giorno fa e il fatto che adesso le canzoni diventano virali su TikTok per video che fanno altri, o per video dell’autore stesso in cui però si fanno balletti o scenette promozionali. Sono contenuti che magari vanno bene per pubblicizzare, ma non restano nel tempo.
Il video musicale, invece, è come la canzone: una cosa che può restare.
E a me le cose che restano nel tempo piacciono.
Quindi, sarà anche un mio vezzo ma continuo a farli lo stesso, mi piace.
In conclusione, si, quando creo un video, lo vivo come un’estensione del suono, non come un sostituto. È la seconda fase creativa: quella riflessiva, quella in cui costruisco come far parlare visivamente una canzone, cercando di farlo in maniera meno didascalica possibile.
Con il video di “Spaventapasseri” volevo proprio questo: unire malinconia, solitudine e ironia in un racconto visivo che amplificasse la canzone, non che la spiegasse.
Un artista che non rincorre la velocità del mondo, ma la verità delle emozioni.
Con “Spaventapasseri”, STRE ci ricorda che anche la fragilità può diventare bellezza.
Guarda il videoclip su YouTube:
www.youtube.com/watch?v=QQSn1Zap_Lg
🎧 Ascolta “Spaventapasseri” su tutte le piattaforme digitali.


