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Con Nomi cose città, Moretti si prende il lusso del tempo. Il tempo di scrivere, suonare, ascoltare. Il tempo di lasciar sedimentare le cose. In un panorama musicale dominato dalla fretta, dai contenuti-clip, dall’estetica dell’istantaneità, il suo secondo disco è un oggetto anacronistico e, proprio per questo, interessante. Non cerca la viralità, non insegue trend: preferisce seminare sottotraccia, con calma, con una scrittura che aspira a durare.

Il titolo, che richiama il celebre gioco infantile, non è solo un richiamo nostalgico: è un gesto programmatico. Dare un nome alle cose, ai luoghi, alle persone, è l’unico modo per metterle in ordine, per contenerle. E anche per lasciarle andare. Questo disco nasce chiaramente da un’esigenza personale di riordino, di messa a fuoco, quasi di bilancio. Rispetto al primo lavoro (Moretti ha fatto anche cose buone, 2022), dove ironia e provocazione giocavano un ruolo centrale, Nomi cose città è più sobrio, più crudo, più vicino alla tradizione cantautorale italiana. Guccini, Giurato, Camerini, Vecchioni sono riferimenti che si sentono nell’aria, non tanto negli arrangiamenti quanto nello sguardo: umano, disilluso, affettuosamente tragico.

Musicalmente, il disco è costruito con misura. Gli arrangiamenti sono scarnificati, volutamente “non radiofonici”: strumenti veri, pochi effetti, suoni quasi domestici. È un’estetica della sottrazione, che rifiuta il maquillage digitale e riporta tutto alla dimensione dell’ascolto nudo. Una scelta coerente anche con l’approccio live, che rappresenta una parte fondamentale del progetto: Moretti suona dal vivo con una band reale, senza sequenze, senza basi, senza click. Una scelta quasi ideologica, che riporta il concerto al suo statuto originale: quello di un incontro umano, non replicabile, non perfetto. In un’epoca in cui persino i musicisti indipendenti si affidano alle macchine, è un atto di coerenza non banale.

Il punto di forza del disco è la scrittura. I testi sono densi, essenziali, e riescono spesso a condensare molto in poche immagini. Non c’è retorica, non c’è autocommiserazione, ma una malinconia lucida che attraversa tutto il lavoro come una linea sottile. L’amore, la famiglia, la morte, la città, il corpo: ogni tema viene trattato con pudore, ma senza filtri. Alcuni brani sembrano confessioni non richieste, altri piccoli racconti scomposti. Si sente che queste canzoni sono nate prima della musica, come parole da dire per forza.

Tuttavia, questa scelta radicale ha un prezzo. In alcuni momenti, il disco rischia di chiudersi in se stesso. Il tono costantemente basso, la rinuncia a ogni apertura melodica più ampia, la coerenza timbrica quasi assoluta possono rendere l’ascolto faticoso, soprattutto per chi non è già dentro al linguaggio. È un lavoro che richiede attenzione, e che non concede molto in cambio, almeno non subito. Non ci sono canzoni facili, non ci sono hit. Ma forse è giusto così.

Quello di Moretti è un disco che non si propone come risposta, ma come presenza. Un album che dice: sono qui, con le mie cose, i miei nomi, le mie città. Che suona come una telefonata lunga, a volte troppo lunga, ma sincera. Che non ha paura di non piacere a tutti. Che sa che oggi, forse, il vero gesto punk è cantare piano.

Nomi cose città non sarà ovunque, ma sarà dove deve essere. In certi scaffali, in certe playlist, in certe notti. È un disco che non si scrolla via. E che probabilmente, col tempo, crescerà.

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