Un sound sospeso tra vintage e modernità, una scrittura che abbraccia emozione e consapevolezza, e un tour che porta in giro per l’Italia l’energia della musica suonata dal vivo.
Abbiamo incontrato Alessandro Ragazzo per farci raccontare “Tutte le nostre città”, il suo primo album: un progetto intenso e personale, che mescola influenze diverse senza perdere mai l’equilibrio. Dalle colonne sonore al cantautorato, passando per il prog, il jazz e il cinema, Alessandro ci ha parlato delle sue radici musicali, delle nuove ispirazioni e dell’importanza del live nella carriera di un artista indipendente oggi.
L’album “Tutte le nostre città” intreccia suoni retrò e cantautorato moderno. Come hai costruito questo equilibrio tra passato e presente nelle produzioni?
A dire il vero è stato un processo molto naturale, per nulla forzato. Sia in fase di scrittura – dove il mio amico e compositore Danilo Abiti ha avuto un ruolo importante – sia nella produzione e negli arrangiamenti curati da Matteo Buzzanca, abbiamo lavorato con un approccio libero, seguendo semplicemente ciò che ci piaceva di più, senza sovrastrutture né vincoli.
Il risultato è venuto da sé: un equilibrio spontaneo tra le nostre radici e il presente.
Hai già una solida esperienza tra EP, colonne sonore e collaborazioni importanti. In che modo questo album rappresenta un punto di svolta nel tuo percorso artistico?
Sicuramente perché è il mio primo disco, e credo che per un cantautore sia un traguardo importante.
Ma soprattutto perché è il primo lavoro che sento davvero mio, che mi rappresenta in tante delle mie sfaccettature.
Nell’album convivono influenze diverse: c’è il prog che suonavo da adolescente, il jazz e la classica che ho studiato in conservatorio, il cantautorato italiano che amo profondamente, il pop, il rock, il cinema… e poi l’amore, il disincanto, il fatalismo.
È un disco che, sicuramente, mi assomiglia.
Citi riferimenti come Finardi, PFM, Ivan Graziani. Che tipo di ascolti ti stanno ispirando oggi? E quanto contano per te le radici del cantautorato italiano?
Devo ammettere che ultimamente faccio un po’ fatica ad ascoltare musica nuova: mi ritrovo spesso a tornare ai grandi classici che mi hanno accompagnato nel tempo.
Ascolto ancora tantissimo i Pink Floyd, i Dire Straits, David Bowie, Don McLean…
E naturalmente il vecchio cantautorato italiano, che è diventato una vera e propria passione.
Il tuo tour toccherà diverse città italiane. Quanto conta oggi il live per un artista indipendente come te, anche a livello di connessione con il pubblico?
Per quello che faccio io, il live è probabilmente la parte più importante.
È il momento in cui posso esprimermi davvero con libertà, tra improvvisazioni e sezioni strumentali che dal vivo prendono vita in modo diverso ogni volta.
Ma soprattutto è l’occasione per creare un legame diretto con chi ascolta, per far affezionare le persone alla mia musica in modo naturale, sincero, senza filtri.
È lì che tutto acquista senso.