Dopo aver pubblicato una personale e intensa reinterpretazione di “Red Rain” di Peter Gabriel, Fabio Nardelli – in arte Uniplux – racconta in questa intervista le radici profonde del progetto: l’amore per il lavoro di Gabriel, l’impatto emotivo del brano originale e l’urgenza di collegarlo a quanto accade oggi nel mondo. Un dialogo diretto, sincero e a tratti amaro, che affronta anche il ruolo dell’artista nel rileggere capolavori senza profanarli, ma lasciando comunque un’impronta personale.
1. Come è nata l’idea di reinterpretare proprio “Red Rain” di Peter Gabriel, un brano così simbolico e complesso?
Ho sempre amato il lavoro di ricerca sonora di Peter Gabriel una volta uscito dai Genesis… Questa è la canzone che più mi colpì all’uscita di quell’album “So” nel 1986. La sentii una notte in radio, in macchina con degli amici, e non capii all’inizio che fosse lui… poi il suo modo di usare la voce mi svelò l’arcano. Andai a leggere e tradurre il testo e ne rimasi affascinato.
2. Nel tuo arrangiamento hai introdotto molte chitarre elettriche: quanto è stato importante per te cambiare la struttura sonora dell’originale?
Bé, nasco principalmente come chitarrista, anche se canto, scrivo e programmo un po’ tutto da anni ormai. Ho fatto anche il produttore di studio per altri, grazie all’esperienza appresa dietro alla consolle quando stavo in RCA… Non potevo non mettercele, altrimenti non la sentirei anche un po’ mia (forse è anche una compulsione da chitarrista, probabilmente).
Comunque ho molto rispetto dei capolavori come questo, e credo che riarrangiarli troppo diversamente sia un po’ presuntuoso… È una critica che mi hanno fatto, di non cambiare troppo nelle cover che ho riproposto. Ma spesso il risultato è deludente a mio avviso, tranne rari casi. Tu te la sentiresti di riarrangiare, che so, Stairway to Heaven? Io no… sacrilegio! Tanto poi, le realizzazioni analogiche suonate da musicisti veri non verranno mai uguali: ognuno porta inconsapevolmente una parte di sé nella canzone.
3. Hai parlato del brano come di una metafora sulla guerra nucleare: è anche una risposta a quanto sta accadendo oggi nel mondo?
Questo è quello che ci ho visto e sentito io come prima emozione. Dopo ho letto del sogno ricorrente di Gabriel: il liquido rosso che fuoriusciva dalle bottiglie a forma umana, diventando pervasivo.
Ci vedo proprio lo spettro della paura di un’ecatombe incombente e devastante. La melodia della song la trovo molto drammatica, così come le sue urla disperate che spara ogni tanto. La trovo molto attuale se pensiamo ai conflitti odierni che stiamo vivendo da vicino, questa paura che un’escalation possa portare all’uso di armi atomiche.
Difatti, nel video ho usato scene che rimandano a Hiroshima e Nagasaki: l’unica volta (per fortuna e per ora) in cui sono state usate armi nucleari sulla popolazione civile, nel 1945, con effetti devastanti.
4. Cosa ti auguri che il pubblico percepisca ascoltando questa versione, e quali riflessioni vorresti suscitare?
Mi piacerebbe che le persone – i giovani soprattutto, ma anche i “vecchi” come me che hanno la memoria corta, a quanto pare – si rendessero conto di cosa significherebbe oggi l’uso di armi nucleari in un conflitto.
E che forse sarebbe il caso di smettere di pensare alla guerra come mezzo di minaccia e ricatto economico-politico da parte di chi detiene il potere sul pianeta.
Quando avevo 20 anni, molti giovani come me speravano e sognavano un mondo migliore, dove la parola “guerra” fosse cancellata dal dizionario. Forse eravamo ingenui… ma mai avrei pensato di ritrovarci, 40 anni dopo, in questo schifo.