Skip to main content

In “Change&Gather” la musica e il ritmo diventano il fulcro per riunire le persone e spingerle verso il cambiamento. Come sei arrivata a connettere il potere unificante dei tamburi africani con l’idea di una trasformazione sociale collettiva?

Bellissima domanda. La risposta ha origine alla mia nascita, chiaramente eviterò di raccontare tutta la vicenda della mia vita, però ha origine con le mie origini, con la necessità e difficoltà, arrivate già nella mia prima infanzia, di trovare un legame con un continente sconosciuto che tuttavia mi era continuamente attribuito e nel riuscire a rompere questo muro con me stessa e con la parte di me africana solo nel momento dell’incontro fortuito con le danze e le musiche di una parte di quel continente. Quell’incontro ha dato inizio al mio percorso di pacificazione con la mia parte africana, di radicamento a qualcosa che andava oltre i limitanti confini disegnati nel mondo e di consapevolezza che quella forma d’arte celava un’immensa possibilità. Quando ero all’università eravamo in poc* ad essere ner* italian* e ho visto con i miei occhi concepire, nascere e crescere attorno a me quella generazione che adesso sta cercando di rivoluzionare il modo di vedere l’Italia e l’Europa e molti dei primi semi sono stati messi proprio nel mondo dell’incontro fra la cultura musical-coreutica africana (soprattutto dell’Africa occidentale) e chi ne aveva curiosità. Le prima volte che ho esperito queste danze e musiche ho sentito che avevano il potere di risvegliare in chiunque le esperisse quella parte che non ha differenze, la pancia, le viscere, l’anima. Quei territori interni dove dove siamo tutt* simili. Da lì ho proseguito, facendo ricerca sia teorica che pratica, imparando e ballando; ci ho fatto la tesi di laurea sopra su quest’incontro, fra Africa ed Europa attraverso le danze e le musiche etno-popolari, ed è diventato parte del mio lavoro e del mio percorso di vita, che ancora perdura e continua ad evolversi.

Il ritornello del brano ripete gesti come “alzare le braccia” e “muovere i fianchi” in un rituale di danza collettiva. Come vedi il potere della danza nel connettere le persone e nel promuovere un cambiamento profondo, soprattutto in una società sempre più frammentata?

Come dicevo sopra, le danza e le musiche di derivazione popolare o etnica, che dir si voglia, già come approccio generale hanno un accesso privilegiato a parti di noi che ci connettono come esseri umani pre culturali. Per quanto i condizionamenti possano presentarsi poco dopo, la prima vibrazione è inequivocabile. Quando si sentono certi ritmi suonati sulle percussioni anche il più restio risponde, inizia a muoversi e il meno restio entra in trance. La musica è prima di tutto vibrazione e ci sono studi abbastanza accreditati che attestano quanto alcune frequenze attivino sostanze ormonali nel corpo che alimentano precise emozioni. Se poi si ha voglia di fare un passo oltre, provare a conoscere e a sperimentare lasciandosi andare oltre le restrizioni pregiudiziali, il demone della danza è in grado di unire le persone più disparate, in uno stato di grazia in grado di far sparire parole come politica, confini, identità, razzismo, discriminazione, portando all’avvicinamento e all’incontro fisico. Attenzione! È facile in quella circostanza sorprendersi a toccarsi, abbracciarsi, piangere e ridere con il proprio presunto peggior nemico, toccando con mano la sua sensibilità, entrando in empatia e lasciando indietro le sovrastrutture. Sono mezzi potenti di trasformazione e consapevolezza, che ho potuto sperimentare con i miei occhi e il mio corpo nei 20 anni in cui mi sono votata alla trasmissione del valore interculturale della pratica coreutico-musicale con il progetto Danzemeticce e con Eurafrica.

In “Change&Gather”, descrivi un momento in cui la collettività si riunisce per agire insieme. Secondo te, quali sono i primi passi che possiamo compiere, come comunità, per portare avanti quel cambiamento concreto che inviti a celebrare attraverso la musica?

Nella domanda specifichi “attraverso la musica”, e allora mi soffermo solo su questo punto… perché la necessità di fare un cambiamento concreto verso l’unione plurale delle genti come comunità è un tema enorme, che dovrebbe passare attraverso tutte le sfaccettature della società. Tuttavia, parlando di musica, la necessità della comunità italiana ha bisogno di divulgare attraverso i mezzi di comunicazione di massa, quindi quelli mediaticamente più potenti, radio e televisione, le musiche di diverse culture, dando modo di farle uscire dall’angolino, interessante e nutriente quanto si vuole, ma troppo limitato della nicchia, per dar loro una autentica possibilità di essere conosciute e vissute. Non ho mai creduto alle statistiche dei trend musicali fruiti dalla maggioranza, perché vedo con i miei occhi e ascolto con le mie orecchie ogni giorno la sorpresa e il coinvolgimento delle genti, con gusti musicali e politici più disparati, che venendo a conoscenza di queste danze, di questi ritmi, di questi mondi per la prima volta ne rimangono totalizzate. La loro estraneità dipende dal fatto che semplicemente non gli si erano mai presentati davanti. Se a Radio Dj o al Cocoricò mettessero un pezzo di musica percussiva africana ad un certo punto vedi che succede… oh, magari l’hanno fatto eh!…fatemi sapere… ma non basta comunque una volta, per poi martellarci con 150 riproduzioni al giorno dello stesso brano disco- pop-trap. Voglio dire che è solo una questione di conoscenza e ahimé la conoscenza oggi passa attraverso i mass media, che poi rimbalzano sui social e che poi influenzano le correnti di ascolto e di pensiero, e non il contrario. Quindi la rivoluzione partirà quando le major faranno un passo verso la pluralità.

Il ritmo finale del brano si intensifica, evocando un crescendo frenetico e coinvolgente. Credi che questo ritmo incalzante rifletta anche l’urgenza di affrontare le sfide sociali e ambientali di oggi? Come immagini che la musica possa aiutare a trasformare questa urgenza in azione concreta?

Quante volte mi sono posta questa domanda: come fare dell’arte che produco un’azione concreta? È un leitmotiv nella mia testa e un nodo nella mia vita, perché così come ho iniziato a fare arte per necessità di salvezza e non per velleità, così avrei voluto che fosse il proposito dell’arte che faccio: poter contribuire a far vivere meglio gli/le altrə e daer un apporto sociale concreto. Nel mio piccolo ho avuto e ho riscontri di questo tipo a livello individuale, persone che dopo i concerti o dopo i laboratori vengono da me ringraziandomi abbracciandomi e dicendomi magari che gli/le ho risollevato la giornata o fatto riflettere su qualcosa che era loro sfuggito; questo mi riempie sempre il cuore, ma non è sufficiente. Più grandi gratificazioni le ho avuto quando ho potuto lavorare con gruppi fragili, come donne vittime di violenza, bambini, rifugiati, disabili e sicuramente vorrei ampliare questa pratica e integrarla con pluralità di persone che lavorino insieme nella diversità, verso un obbiettivo comune. Ma il proposito deve ampliarsi su larga scala, come per il discorso precedente sulla musica nei media di massa. Le autorità governative dovrebbero predisporre più fondi per affiancare alle organizzazioni umanitarie percorsi artistici mirati, perché l’essere umano non vive di sola carità, quella e la parte della sopravvivenza; l’essere umano per vivere deve sentire riconosciuti i propri talenti e poterli sviluppare, mettere in pratica, sentirsi utile nel mondo. So che le arti performative e l’arte in generale ha questo potere, di elevare l’umanità a qualcosa di più che semplice animale bisognoso, che sia di cibo come base minima di sopravvivenza o di opulenza per celare il proprio senso di inadeguatezza; dalle stelle alle stalle la violenza e la privazione si annida nella mancanza di riconoscimento. L’arte, utilizzata socialmente ha il potere di donare dignità individuale a tuttə, pur mantenendo una visione plurale e collettiva, agendo sulle coscienze, sulle emozioni delle persone, sulle nostre intime speranze ma soprattutto sulla nostra parte creativa. E il mondo lo fanno le persone, le guerre le fanno le persone, i governi sono fatti di persone e se fare la guerra o la pace lo decidiamo noi ogni giorno.

Lascia un commento