Skip to main content

C’è un filo invisibile che lega le città che ci hanno cresciuto e quelle che ci hanno accolto. Cabruja lo sa bene: biologo di formazione, insegnante per vocazione, musicista per necessità espressiva. Il suo nuovo brano “Malecón” è più di una canzone: è un luogo dell’anima. Nato in piena pandemia come spazio immaginario dove ritrovare respiro, oggi Malecón è diventato reale – su disco, in video, sul palco – e porta con sé una visione profonda dell’appartenenza e della festa, del sacro e del profano, della spiritualità e del corpo.

In questa intervista ci racconta cosa significa per lui essere ponte tra due mondi, tra scienza e musica, tra Venezuela e Italia, e come ogni nota sia il riflesso di una storia più grande.


INTERVISTA A CABRUJA

1. “Malecón” nasce da un’esigenza emotiva durante la pandemia e diventa un rifugio simbolico. Oggi, che significato ha per te quel “Malecón”? È ancora un luogo immaginario o è diventato qualcosa di più concreto nella tua vita e nella tua musica?

È diventato una canzone e un video! Quindi è qualcosa di concreto, a questo punto, ma ancora oggi, quando parlo con determinate persone, uso la parola Malecón per riferirmi a quel luogo ideale, dove si fa festa, si sta bene.
Sono tornato in Venezuela qualche anno fa e la prima cosa che ho chiesto alla mia famiglia è stata andare al mio malecón preferito!

2. Il brano intreccia sacro e profano in una danza collettiva che sembra celebrare la vita stessa. Quanto è importante per te, come artista e come persona, mantenere vivo questo legame tra spiritualità e corporeità?

Non c’è corpo senza spirito e non c’è spirito senza corpo. Questo è il mio approccio, se vuoi scientifico, alla questione. Non sono una persona credente, ma ho una forma di spiritualità che si manifesta, sempre e comunque, nell’osservazione del mondo che mi circonda e delle persone.
La Natura, i rituali… sono molto scaramantico, ma per me è soltanto un modo per rimanere in contatto con le mie radici, la mia terra, che non è altro che corpo. È così che si fondono le due cose: anima e materia. Non le posso percepire separatamente.

3. Hai un percorso unico: biologo, insegnante, musicista. In che modo la tua formazione scientifica ha influenzato – o arricchito – il tuo modo di scrivere e vivere la musica?

Come dicevo prima, la mia formazione scientifica tocca tutto ciò che faccio e come interpreto il mondo, e come conseguenza, tutto ciò che produco, nel bene e nel male. A volte è un limite perché spesso divento troppo razionale quando scrivo un testo, quando lo associo ad una melodia. Questo, me ne rendo conto, mi blocca.
Altre volte invece mi dà degli spunti, idee.

4. Il Venezuela è presente nella tua voce, nei tuoi suoni, nelle tue immagini. Come vivi l’appartenenza a due culture, quella delle tue radici e quella italiana che ti ha accolto? E come convivono dentro i tuoi brani?

A me piace elargire conoscenze, spiegare, spiegarmi – lo faccio anche di mestiere. Per la gioia (ironico) di chi mi circonda, ho sempre qualcosa da dire, e se non ce l’ho, trovo comunque qualcosa da dire.
Ad esempio, il nuovo progetto live che stiamo portando avanti, Guayabo, cerca di fare un po’ di ricerca e un po’ di cultura, raccontando – tramite un repertorio latinoamericano di un certo livello – il sentire del nostro popolo sull’amore, sulla morte, la perdita, incluso sulla nostra realtà socio-politica ed economica.
Scherzo spesso con un amico sul fatto che appena viene fuori che sono venezuelano, mi tocca fare una lectio magistralis sulla situazione del mio paese, cosa che non sempre ho voglia di fare perché a volte mi piglia male.
Ma è inevitabile, è normale, la gente è curiosa. Noi che veniamo d’altrove portiamo un messaggio, sempre. Con il nostro accento, con i timbri sul nostro passaporto, e ovviamente con la nostra musica.
Malecón è piena di riferimenti culturali molto venezuelani, e non vedo l’ora di sentire gli italiani – e non solo – dire ¡Fuerza! ogni volta che ascolteranno questa canzone!

Lascia un commento