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“Alieni e Transumani” è un album che riesce a parlare del presente con parole semplici e idee forti. Rocco firma un progetto che unisce impegno e leggerezza, capace di affrontare temi cruciali come il digitale, la disinformazione, le derive tecnologiche e sociali con uno sguardo lucido, ma mai moralista. Il suo linguaggio è diretto, accessibile, pieno di trovate brillanti e paradossi che spiazzano, fanno riflettere e, spesso, anche sorridere.

A livello sonoro, l’album mescola elettronica, pop, rap e funk con naturalezza. Ogni arrangiamento è pensato per sostenere il testo, per enfatizzarne il significato senza sovrastarlo. Il risultato è un lavoro coeso ma mai monotono, capace di sorprendere traccia dopo traccia.

Rocco è un cantautore che non cerca scorciatoie: non rincorre mode o cliché, ma costruisce un’identità forte e riconoscibile. Preferisce dire qualcosa, anche quando fa male. E ci riesce, con intelligenza, ironia e umanità. Un disco che si fa ascoltare con piacere e che, soprattutto, lascia qualcosa dopo l’ultima nota.

 

Come descriveresti l’atmosfera di “Alieni e Transumani” rispetto ai tuoi precedenti lavori?

Probabilmente il mio album più distopico e visionario.

Porto avanti una parte dello spirito che animava anche il disco precedente “CantauNtore”, ma con una maggiore urgenza narrativa. Ho sentito il bisogno di raccontare il presente e di denunciare scenari futuri, forse per scongiurarli e per esorcizzare lo spirito post-umano che sta invadendo ogni ambito della società.

 

Cosa ti ha spinto a trattare temi come il transumanesimo e il controllo digitale in questo album?

La sensazione che non viviamo semplicemente in un’epoca di crisi, ma in un cambio di specie. Una trasformazione antropologica. Il transumanesimo non è una visione futuristica: è una guerra culturale in corso. Volevo restituire questa consapevolezza con un linguaggio accessibile ma non accomodante. Siamo invasi da dispositivi, identità digitali, profilazioni silenziose.

Recentemente qualche sparuto giornale straniero ha parlato ad esempio di Palantir, un’azienda del tecnocapitalista Peter Thiel. Ne ha parlato anche The New York Times in un articolo del 30 maggio. Palantir è una delle aziende di sorveglianza e data mining più potenti al mondo. Il suo nome viene dal Signore degli Anelli di Tolkien: i Palantiri sono pietre onniveggenti e significa “coloro che sorvegliano da lontano”. Questa azienda ha stabilito accordi con il governo statunitense (dal quale solo nel 2024 ha ottenuto 1,2 miliardi di dollari), per raccogliere quantità sterminate di dati dei cittadini americani (e non solo) a loro insaputa e senza alcun consenso: email, chat, messaggi, movimenti bancari, geolocalizzazione, interazioni social, dati sanitari, eccetera.

La vedete la distopia dietro l’angolo o devo farvi un tutorial? Lo vedete il panopticon algoritmico? Un mondo in cui ogni libertà è pericolosa per l’ordine pubblico, ogni dissenso è da reprimere e ogni autonomia è un bug di sistema.

E sapete quale giustificazione adducono per fare tutto questo? “Sicurezza nazionale”, non a caso il titolo di un’altra delle canzoni del mio ultimo album.

Avete sentito al TG una sola parola su Palantir e quello che sta facendo in combutta con CIA, NSA e altre agenzie federali statunitensi?

Tutti zitti. E nessuno sembra porre domande. Chi si azzarda ad alzare un ditino è banalmente tacciato delle peggiori cose.

Ecco, questo album è una domanda. È la domanda. Ci siamo accorti di dove stiamo andando? È davvero questo il mondo che vogliamo?

Sono tematiche che ho trattato anche nei miei libri, come “Il Terzo Like”. Ma sono in compagnia di intellettuali di caratura mondiale come Michel Foucault (“Sorvegliare e punire”), Giorgio Agamben (“Lo stato di eccezione”), Shoshana Zuboff (“Il capitalismo della sorveglianza”), Edward Snowden (“Permanent record”), Byung Chul-Han (“Psicopolitica”), e tanti altri. Lascio al lettore gli approfondimenti.

 

In che modo la satira e l’ironia influenzano il messaggio che vuoi trasmettere?

Satira e ironia sono armi affilate che costituiscono una cifra importante del mio modo di esprimermi. La satira permette di dire verità insostenibili senza fare la predica, di far riflettere senza che l’altro si senta aggredito. L’ironia può fungere da lente deformante che rivela aspetti nascosti e la struttura stessa delle cose in modo piacevole e meno disturbante.

Quando dico “il mio modo di esprimermi” mi riferisco alla mia produzione nel suo complesso. Questo avviene anche nei videoclip. Nel video di “L’Esperto”, ad esempio, uso una banana come metafora di tutte le figure che oggi pontificano in tv: la risata arriva, ma dietro c’è il tutto il paradossale peso del vuoto pneumatico di un certo pensiero unico.

 

Qual è il brano che senti più rappresentativo dell’album e perché? 

Forse Transumania. Perché non è solo una canzone: è una discesa nella coscienza collettiva e nel nostro stato mentale di abbandono all’algoritmo. C’è il ricordo l’umanità perduta in un’intro dalle sonorità etniche, per poi

entrare nell’oscurità con voce e suoni robotici. Transumania è anche un crocevia, il punto in cui il ricordo nostalgico dell’umano e l’incubo del post-umano si sfiorano. Ed è lì che spesso sto con la mia musica: nel punto di attrito. Perché a ben pensarci, è nell’attrito che può ancora accendersi una scintilla.

 

Che ruolo ha l’intelligenza artificiale nella creazione di “L’Esperto” e nel videoclip?

Occorre prima di tutto di chiarire che il termine “intelligenza artificiale” sta diventando ben presto marcio e fuorviante, al punto da indicare tutto e niente: chatbot, algoritmi di raccomandazione, generatori di immagini, filtri automatici delle mail, sistemi di parcheggio automatico, riconoscimento facciale, traduttori automatici, eccetera.

La parola IA è diventata un contenitore vuoto, un termine generico che nasconde tutta la complessità che vi è dietro. Dire IA oggi è come dire “veicolo”. Che vuol dire? Un’automobile? Una bicicletta? Un aereo? Un monopattino? Un treno?

Tornando a “L’Esperto”, come tutte le mie canzoni, ho scritto io stesso testo e musica e l’ho registrata in studio insieme a Marco Gatti, mio amico e fedele compagno d’avventura.

Il videoclip invece l’ho realizzato scrivendo un plot, una sorta di sceneggiatura in cui ho steso le varie inquadrature, espressioni e scene di cui avrei avuto bisogno. Dopo di che ho generato centinaia di scene animate con modelli di generazione testo-video (come SORA AI, Kling AI, Runway AI, eccetera), montando poi il tutto tramite un classico programma di montaggio video, curando anche l’intro, i titoli di coda e la scena post-credits finale.

I registi mi scuseranno per la blasfemia, ma è stato quasi come dirigere un film con set e attori inesistenti. I sistemi informatici di elaborazione avanzata (AI) possono essere uno strumento, ma l’idea, il pensiero, l’intenzione, il senso, quelli sono nostri. Almeno finché resisteremo.

One Comment

  • Paolo ha detto:

    Salve vorrei sapere informazioni sulla spedizione del ultimo cd con la Pennetta USB dei vari video.
    Ricordo che ci siamo visti in Rg5 e che ho già pagato il tutto.
    Grazie mille Paolo

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