Se potessimo associare un’immagine a questo disco vorrei poter scegliere la “Guernica” di Picasso. Rivoluzione, lotta, l’infrazione delle abitudini dentro anche segnali che insieme sono di pace e di macerie. La quiete dopo la tempesta ma anche tantissimo pop d’autore che somiglia a quelle cose famose che passano in radio. Enrico Lombardi ci regala un disco che presto uscirà anche in vinile per la KutMusic dal titolo “Niente paura, il fuoco”. L’arte del suono si fa immagine, diviene liquida, diviene un momento di esaltazione e di urgenza. Il rock poi è un degno contorno. Stefano Campetta alla produzione ha risolto tutto in modo alto… almeno questo arriva dal primo ascolto. Figuriamoci il resto…
In qualche modo possiamo dire che questo è il tuo vero disco d’esordio?
Sicuramente. Prima di questo ho pubblicato alcuni singoli “figli” di una ricerca cantautoriale più classica, diciamo più tendente al folk. Il rock è stato solo sfiorato, per così dire, da alcuni di essi, penso a “Girasole” e più in particolare alla cover di “Vita” di Dalla e Morandi. Ma il rock è il motivo scatenante della mia passione per la musica, principalmente il grunge e il rock blues degli anni 70 dagli Zeppelin ai Doors. Quando ho deciso di pubblicare i primi singoli stavo esplorando nuove strade più morbide del folk, contemporaneamente ai cantautori italiani. Ma già il disco rock bolliva in pentola, anche perché si è preso un bel po’ di tempo, quasi cinque anni; nel mentre volevo mantenere una minima attività di pubblicazione. Da ciò ne consegue anche una loro certa eterogeneità di atmosfere. “Niente paura, il fuoco” è invece amalgamato, coeso, rispecchia pienamente me stesso con la forza del rock che ho amato e amo ancora, nella sua forma più elettrica e viscerale.
Come a dire: hai trovato la forza e la motivazione giusta per scrollarti via di dosso tutto quel “Battisti” e quel canone con cui ti avevamo conosciuto? Non che sia un male ma trovo che ora finalmente c’è il tuo vero “io”. Cosa ne pensi?
Questo disco è il culmine di una fase di maturazione non solo stilistica o tecnica, ma di vita. Chiude un primo cerchio, fatto di introspezione e, appunto, di ricerca della mia “voce” musicale, passando per una maturazione lenta di alcuni testi delle canzoni che lo compongono. Il discorso cantautoriale parte certamente dai primi episodi, dai miei primi singoli, ma è in questo album che riesco a renderlo mio, dopo averlo masticato. Lungi dal guardare positivamente le etichette di genere, mi riconosco in quella del “rock d’autore”, in quel tentativo di mediare i due mondi stilistici che originariamente erano distanti tra loro, ma che negli anni hanno trovato tanti esponenti in Italia: da Ligabue ai Marlene Kuntz, da Vasco ai Litfiba, fino ai più recenti Colapesce e Dimartino, il contenuto autoriale delle parole non si poggia più sulla chitarra acustica, classica o sul pianoforte, ma si nutre dell’elettricità del rock. Da chitarrista quale sono, poi, il mio primo pensiero va ad Ivan Graziani. Ma anche a tanto Pino Daniele, che ho divorato con grande passione.
E se ha senso quel che ho scritto nella domanda precedente, allora ti chiedo: esiste un momento, un evento, una persona che ha dato la “Scintilla n.1” per avviare questo processo di rivoluzione?
Esiste una persona ed è Stefano Campetta, il produttore del disco. Con Stefano sono amico da quando ero quattordicenne, siam cresciuti insieme, abbiamo respirato arie musicali diverse per poi ritrovarci in questo connubio del disco, non senza difficoltà legate al nostro rapporto di grande amicizia: esiste un primo disco di canzoni cestinato da Stefano perché non ci vedeva una luce originale, non vi riconosceva me… Qualche brano di questi è poi diventato un singolo slegato dall’album, che invece ha seguito una nuova strada separata, parallela. Parlo di canzoni opportunamente rimescolate da Stefano nei suoi ingredienti e colori (Persi nel tempo, Marta Meraviglia, Marilyn), mentre altri brani di quel periodo non vedranno mai la luce. Immagina lo stress, immagina la fatica di un produttore di imporre professionalmente una sua visione artistica a un amico, immagina la mia resistenza rafforzata dalla confidenza con cui potevo esprimere quello che penso, controbattere. Alla fine abbiamo trovato la quadra, ma è stato un processo lungo, intenso e faticoso. Sono grato a lui per tutti gli sforzi, questo disco è inscindibile dalle sue visioni artistiche, dal suo gusto.
A lavoro con Stefano Campetta: una produzione davvero importante che ha cercato moltissimo soluzioni assai poco scontate. Come ti sei posto nella scelta degli arrangiamenti? Hai dato carta bianca o sei intervenuto con forza per paura di non riconoscerti?
Come dicevo sopra, io e Stefano nella nostra vita abbiamo respirato arie musicali diverse. Mentre io esploravo il rock americano, il jazz e poi approdavo in ritardo ai grandi cantautori italiani, primi fra tutti Dalla e Battisti, Stefano ha avuto un approccio più caotico, e per questo più generativo dal punto di vista artistico, interessandosi a cantautori come Silvestri, Capossela, Fabi mentre portava avanti progetti di musica techno e dava vita poi a un gruppo Reggae. Siamo entrambi chitarristi, ma Stefano ha sempre vissuto la chitarra come un semplice strumento per la forma-canzone, edulcorato quindi da esibizioni autocelebrative tipiche del rock che invece sono più vicine ai miei ascolti. Il fascino per questa sua visione di insieme, diciamo “laterale”, ha fatto sì che gli chiedessi di produrre il mio disco: ero convinto che il suo approccio diverso avrebbe generato ricchezza e originalità negli arrangiamenti delle mie canzoni. “Come stai”, “Abc di un sorriso”, “Il mio miglior nemico” sono gli episodi del disco dove la sua visione musicale si è espressa con maggiore potenza. Ma ovviamente anche in tutti gli altri brani Stefano ha saputo guidare gli arrangiamenti con soluzioni originali, pur sapendo riconoscere me come artista, lasciandomi spazio per esprimere le mie idee di rock che passavano inevitabilmente attraverso la chitarra elettrica.
Dal vivo inizi a girare: con quale formazione? E con quali arrangiamenti? Penso sia difficile riproporre questo intero disco così com’è dal vivo… o sbaglio?
La formazione al completo è quella di un quartetto composta da Andrea Giovannoli (batteria), Roberto Pace (basso), Andrea Di Giampietro (tastiere e synth) e me alla voce e chitarra elettrica. Con questa line-up il disco rivive sul palco la sua essenza elettrica, il suo approccio rock. Purtroppo sto incontrando difficoltà a portare in giro questa formazione, così per far conoscere le canzoni vado in giro solo con Andrea Di Giampietro alle tastiere e io alla voce e chitarra acustica, o anche io soltanto voce e chitarra acustica. In questi due casi inevitabilmente tutto diventa più intimo, alcuni arrangiamenti vengono rimodulati, si cercano vie diverse d’espressione. Ma a me piacciono lo stesso, perché entrambe le formazioni ridotte consentono una trasmissione più efficace delle parole, di quel discorso cantautoriale che penso sia alla base del mio disco.
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