Il trombettista sardo in Ucraina, tra speranza e paura, per suonare, insegnare e ascoltare
Non è facile raccontare una guerra con gli occhi di chi non brandisce un’arma, ma uno strumento musicale. Eppure è proprio da questo sguardo – colmo di rispetto, consapevolezza e grazia – che Paolo Fresu, trombettista di fama mondiale nato a Berchidda, riesce a tracciare una narrazione diversa della sua esperienza a Kiev. Una narrazione fatta di suoni, silenzi, gesti e sguardi, che si insinuano tra le sirene dei raid aerei e i rifugi improvvisati, nei caffè che resistono e nelle mani che tremano ma non si fermano.
«Abbiamo passato parte della notte nel rifugio dell’hotel, che altro non è se non il parcheggio sotterraneo delle auto», racconta Fresu in un momento di pausa prima del concerto che terrà questa sera in una sala da 350 posti già gremita, dove saranno presenti rappresentanti del governo ucraino, della comunità internazionale e, soprattutto, tanti cittadini comuni. «C’erano letti di fortuna, divani, un angolo per l’acqua e il caffè. Tante persone dormivano lì, abituate a questo. Noi siamo risaliti solo dopo un’ora, quando l’allarme è cessato».
Non è la prima volta che la guerra si racconta attraverso la musica, ma in questo caso è la musica a raccontare la guerra. O, meglio, a provare a dire quello che le parole non riescono a dire. Kiev è una città attraversata da una strana normalità, dove la vita sembra continuare come sempre, ma sotto la superficie si percepisce qualcosa di sospeso, di incrinato. C’è un coprifuoco che scatta a mezzanotte, allarmi che suonano via app, mappe che cambiano colore ora dopo ora. «Osservi le persone mentre mangiano al ristorante durante un allarme: non si muovono. Vivono questa condizione con una resilienza che si intreccia a una rassegnazione profonda. Ce lo ha detto anche l’ambasciatore italiano Carlo Formosa: c’è una rassegnazione nel popolo, ma non è passività, è un modo per restare in piedi».
Il viaggio di Fresu è iniziato via terra, passando dalla Moldavia, attraversando il confine sopra Odessa, costeggiando villaggi segnati dalla povertà, dove si vedono ancora le trincee. «A un certo punto ci siamo fermati per lasciar passare un funerale. Era evidente che si trattasse di un ragazzo giovane, tornato dal fronte. In un altro momento ho visto una casa appena costruita, e degli uomini – non giovani, perché i giovani sono tutti al fronte – che lavoravano lì. Era come se in quel gesto ci fosse un simbolo: costruire significa sperare. Un atto semplice, ma potentissimo».
E poi, c’è stata la musica. Un’aula gremita di studenti del Conservatorio di Kiev, giovanissimi, tra i 17 e i 18 anni, attentissimi, affamati di arte, di suono, di altro. «Ho iniziato con l’inno ucraino, riarrangiato per una trasmissione televisiva, e l’ho suonato in duo con il pianista Edoardo. Si sono alzati in piedi. Non dimenticherò mai quell’istante. Era come se tutti loro stessero dicendo: noi siamo qui, e siamo vivi». Un gesto semplice, eppure carico di significato. In quella stanza, per qualche minuto, la musica ha vinto sulla guerra.
Resilienza, speranza, rassegnazione sono le parole di Paolo Fresu per raccontare i volti e gli animi delle persone in Ucraina. E le usa con misura. «Ci sono cose che ci sfuggono, certo. Due giorni non bastano per capire una realtà tanto complessa. Ma qualcosa resta. Come quel rifugio, quella geografia mobile del pericolo, quei volti, quelle mani. E quel silenzio che precede la musica».
Stasera aprirà il concerto con l’inno nazionale ucraino. «È giusto così», dice. Poi, domani, si riparte verso Chişinău in Moldavia e infine verso l’Italia. Ma quel che è accaduto in questi giorni – nelle strade, nei rifugi, nelle aule – ha lasciato un segno.
«Portare qui un linguaggio di pace come la musica è un privilegio. Significa toccare con mano la realtà, andare oltre le immagini che vediamo da lontano. Essere presenti. È un piccolo gesto, forse, ma in certi contesti può valere tantissimo».
FONTE: Paolo Fresu a Kiev: «La musica come rifugio nel cuore della guerra»