C’è una voce che trema, ma finalmente si libera. Una voce che arriva da lontano, attraversa la distanza e si posa come sale sulle ferite rimaste aperte.
In “’O Mar ‘O Mar”, che uscirà il 18 luglio, Revelè racconta il ritorno — non fisico, ma emotivo, carnale — verso la propria terra, dopo anni di silenzi, nostalgia e parole sospese.
Il brano nasce dal bisogno di ricucire uno strappo antico e di parlare, finalmente, con quel mare che è stato presenza, mancanza, padre e madre insieme.
Tra musica, teatro e scrittura, Revelè costruisce un racconto intimo e universale, in cui le radici non sono zavorra ma vento, e l’appartenenza non è mai davvero statica.
Lo abbiamo incontrato per farci raccontare da dove nasce questa canzone potente e fragile, e come si tiene viva la propria voce anche quando si è lontani da casa.
L’intervista
“‘O Mar ‘O Mar” nasce da una lontananza, ma suona come un ritorno: cosa ti ha fatto capire che era il momento giusto per scrivere – e far ascoltare – questo brano?
Credo che a volte siano le canzoni a sceglierti, e “’O Mar ‘O Mar” è una di queste. È nata da una ferita antica, ma ha preso forma solo quando ho capito che non potevo più rimandare il mio ritorno, almeno simbolico, verso casa. L’ho scritta quando la nostalgia ha smesso di essere un peso e ha iniziato a diventare direzione. Sentivo il bisogno di ricucire lo strappo, di dire alla mia terra che, nonostante tutto, non l’ho mai lasciata davvero. Era il momento giusto perché era il momento in cui avevo finalmente trovato la voce per farlo.
Nel tuo racconto, il mare diventa quasi un personaggio, una presenza viva. Se potessi parlargli oggi, come faresti in una scena di teatro, cosa gli diresti?
(Sorride) Probabilmente gli direi: “Nun m’ha cunsolat, ma m’ha sempe tenut a galla”. Gli direi che l’ho odiato e amato allo stesso tempo, come si fa con chi ti manca da morire. Gli direi che è stato il mio padre silenzioso, la mia madre che abbraccia da lontano, la mia confessione più sincera. E poi gli chiederei: “Sto tornando… mi riconoscerai ancora?”
Nel tuo percorso convivono musica, teatro e scrittura. Quando componi, quale di queste voci prende il sopravvento? E come convivono in una canzone come “‘O Mar ‘O Mar”?
Quando scrivo, parte tutto dal corpo. È quasi una scena teatrale che prende vita da dentro: vedo immagini, sento voci, mi ritrovo a parlare con i miei fantasmi. Poi arriva la parola scritta, la poesia, e infine la melodia. In “’O Mar ‘O Mar” ci sono tutte e tre: c’è il gesto teatrale del ritorno, c’è la scrittura come memoria e c’è la voce che finalmente si libera, anche se trema. Non c’è una voce che prevale: convivono come se fossero le tre vene di uno stesso cuore.
Le tue radici sono forti, ma non sono mai state statiche. Cosa significa per te appartenere a un luogo che continua a cambiarti anche da lontano?
Significa sapere che Napoli è dentro di me anche quando non ci sono. È un’appartenenza che si muove, che cambia forma ma resta identità. Anche lontano, quella voce dentro con i suoi silenzi e le sue urla non mi ha mai abbandonato. È come se ogni città in cui ho vissuto avesse aggiunto un colore al mio modo di essere napoletano. Napoli, Melito, Bergamo… convivono in me come una mappa emotiva. E questa mappa, anche da lontano, continua a portarmi a casa.
Pensieri, desideri e emozioni di un giovane lontano da casa, si perché la casa non è un ammasso di cemento e pietra ma un luogo da condividere con chi si vuole bene, con qualcuno con cui si è costruito la propria storia ed bellissimo che un giovane provi ancora queste emozioni in una società che viaggia spedita verso la solitudine e l’appiattimento morale e sentimentale.
Parole che commuovono, che denotano una sensibilità elevata in un contesto diverso dal suo animo.