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Anche se il suo nome non era così conosciuto, il cantautore Fausto Amodei, morto giovedì a 91 anni, ebbe un ruolo fondamentale nello sviluppo della canzone d’autore italiana. Negli anni Cinquanta fu tra i primi a definire un nuovo modo di scrivere canzoni: più impegnato, ambizioso e militante, e distante dalla leggerezza e dal disimpegno che caratterizzavano la musica italiana del tempo.

L’esperienza di Amodei come cantautore cominciò a Torino verso la fine di quel decennio, quando contribuì a fondare il collettivo Cantacronache, uno degli esperimenti più importanti della controcultura italiana degli anni Cinquanta. Furono gli autori di alcune delle canzoni politiche e di denuncia sociale più famose del Dopoguerra, come “Per i morti di Reggio Emilia”, “Dove vola l’avvoltoio?”, “Oltre il ponte” e “La zolfara”, e anche se rimasero in attività per poco più di cinque anni anticiparono i temi, il modo di scrivere e le posture della generazione di cantautori italiani che emerse nel ventennio successivo.

Alcuni, come Enzo Jannacci, hanno omaggiato i Cantacronache reinterpretando le loro ballate; altri, come Francesco Guccini, li hanno citati come un’influenza fondamentale per il loro modo di scrivere; e altri ancora, come Fabrizio De André, hanno ripreso i loro versi in alcune delle loro canzoni più celebri.

In quegli anni i Cantacronache sperimentarono anche un’intersezione tra musica, giornalismo e letteratura inedita per l’Italia del tempo, coinvolgendo nella scrittura dei testi scrittori e intellettuali come Italo Calvino, Franco Fortini, Gianni Rodari e Umberto Eco.

I Cantacronache nacquero nel 1958 dall’incontro di Amodei con Michele Straniero, un giornalista della sezione locale dell’Unità, e Sergio Liberovici, librettista, compositore e tra i fondatori del Teatro Stabile di Torino. A questo primo nucleo si aggiunsero poi la cantante e paroliera Margot (Margherita Galante Garrone), moglie di Liberovici, e il musicologo Emilio Jona.

Amodei, Straniero, Liberovici, Garrone e Jona erano accomunati da alcuni interessi. Militavano tutti nella sinistra torinese e amavano le opere teatrali di Bertolt Brecht, le poesie dialettali di Ignazio Buttitta, e le ballate di chansonnier francesi come Georges Brassens, Jacques Brel, Boris Vian e Barbara.

Decisero di chiamarsi Cantacronache perché volevano utilizzare la canzone come mezzo di riflessione critica sul presente. Per rendere il concetto utilizzavano l’espressione «evadere dall’evasione», cioè allontanarsi dai cliché delle canzoni allegre e spensierate dell’Italia del Dopoguerra, che consideravano un riflesso dello spirito del tempo edonista, consumistico e acritico del boom economico.

Utilizzavano una retorica di aperta ostilità nei confronti del Festival di Sanremo, nato 7 anni prima della fondazione dei Cantacronache e da loro stessi definito il «palcoscenico della smemoratezza italiana», e nelle loro esibizioni alternavano alle canzoni monologhi teatrali e adattamenti di poesie di Cesare Pavese, Salvatore Quasimodo, Franco Fortini, Gianni Rodari, Bertolt Brecht, Vladimir Majakovskij e Nazım Hikmet.

Un’altra caratteristica del lavoro dei Cantacronache era la grande attenzione attribuita alla metrica. In alcune interviste, Amodei ha raccontato che la scrittura dei testi creava frequenti battibecchi tra i membri del collettivo, e poteva richiedere molti giorni. «Dibattevamo a lungo sui metri poetici, sulle quantità delle parole e su come apporre la musica su di esse o, viceversa, su come andare a inserire le parole – nel massimo rispetto di esse – su di un’aria o un motivo».

Le loro prime ballate erano ispirate da fatti storici o di cronaca riguardanti persone e gruppi sociali esclusi o danneggiati da quella fase di prosperità, e avevano spesso una chiara connotazione marxista. “La zolfara” (1958), scritta da Amodei e Straniero, raccontava per esempio la morte di 65 minatori avvenuta alla Solfara Gessolungo, nel 1881.

“Per i morti di Reggio Emilia” (1960), scritta da Amodei, era invece dedicata a cinque operai del PCI uccisi dalla polizia durante una protesta sindacale contro il governo Tambroni, il primo nella storia repubblicana ad avere l’appoggio del partito post-fascista Movimento Sociale Italiano. Insieme a “La locomotiva” di Francesco Guccini è una delle canzoni di denuncia sociale più famose dello scorso secolo, e viene tuttora suonata durante eventi come le feste dell’Unità e il “Concertone” del Primo Maggio. La canzone cominciava con il verso “Compagno cittadino, fratello partigiano”, che ispirò il nome del secondo EP della band punk dei CCCP.

Già dopo pochi mesi, quando cominciarono a farsi conoscere durante i primi concerti organizzati dai sindacati, i Cantacronache provarono a entrare in contatto con grandi personalità della letteratura, della poesia e del teatro. Volevano ricreare un ambiente culturale simile a quello che si era già consolidato in Francia, dove chansonnier come Vian e Juliette Gréco erano riusciti a stabilire rapporti di amicizia e collaborazione con autori come Jean-Paul Sartre e Jacques Prévert.

A collaborare ai testi fu soprattutto Italo Calvino, che scrisse alcune delle canzoni più famose dei Cantacronache. “Dove vola l’avvoltoio?” (1958), scritta insieme a Liberovici e cantata da Pietro Buttarelli, diventò una delle canzoni antimilitariste più famose del Dopoguerra. Una sua quartina fu ripresa e adattata da Fabrizio De André in “La guerra di Piero” (1964).

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A testi più impegnati e di denuncia sociale, Calvino ne affiancò altri più intimisti, poetici e ironici. Per esempio, “Canzone triste” (1958) raccontava la grigia e alienante monotonia di una coppia di operai stacanovisti che non riusciva a trovare il tempo per avere rapporti intimi per via dei lunghi e massacranti turni in fabbrica, mentre il protagonista di “Il padrone del mondo” (1959) è un ciclista proletario che all’alba si diverte a cantare a squarciagola per disturbare il sonno di imprenditori e commercianti.

Tra il 1958 e il 1962 i Cantacronache realizzarono una grossa quantità di materiale, distribuendola su diversi 45 giri. Oltre a varie raccolte di canti popolari incentrati su temi diversi, dalla rivoluzione messicana ai movimenti di liberazione cubana, il collettivo pubblicò undici dischi.

Tra questi c’erano anche le tre raccolte “Cantafavole”, destinate ai bambini. Calvino fu coinvolto anche in questi esperimenti insieme a Jona, al poeta Franco Fortini, e soprattutto a Gianni Rodari, probabilmente il più adatto allo scopo. Era infatti il più famoso autore di libri e poesie per bambini del periodo, e scrisse per Margot “Girotondo di tutto il mondo”, una spassosa filastrocca antirazzista.

Dopo lo scioglimento del collettivo, i Cantacronache presero strade autonome. Liberovici si occupò soprattutto di opere teatrali, mentre sua moglie Margot continuò a suonare in giro come solista. Straniero si dedicò agli studi di etnomusicologia e fu tra i promotori del Nuovo Canzoniere Italiano, un gruppo impegnato nel recupero e nella riproposta di canti tradizionali e di protesta, in gran parte provenienti dall’Italia meridionale. Amodei lavorò come musicista fino agli anni Ottanta, scrivendo canzoni da solista e collaborando col Nuovo Canzoniere Italiano. A partire da quel momento ridusse moltissimo i suoi impegni musicali per poi tornare nel 2005, con l’album Per fortuna c’è il cavaliere.

Nonostante l’importanza che ebbero per lo sviluppo del cantautorato italiano, dopo lo scioglimento del collettivo l’attività dei Cantacronache è stata raccontata poco, e per mezzo secolo le loro canzoni sono state ascoltate soprattutto da una cerchia ristretta di appassionati. La loro opera è stata in parte riscoperta nel 2011, col documentario Cantacronache 1958-1962: politica e protesta in musica.

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FONTE: Prima dei cantautori italiani c’erano i Cantacronache – Il Post

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