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Il mare è spesso associato all’idea di libertà, ma in “Lazy Sea” diventa simbolo di immobilità. Come sei arrivata a questa immagine e quanto riflette il tuo vissuto nomade?

“L’immagine è nata per contrasto. Nel mio periodo nomade ero sempre in grande movimento e migrazione e, nel bisogno di trovare un luogo in cui mettere radici, ho percepito una forte immobilità collettiva: un mare che non si agita, che rimane fermo, pigro e senza sogni. Mi sono inclusa in questa pigrizia e mi sono interrogata sulle mie resistenze. Nel videoclip di ‘Lazy Sea’, invece, il mare rappresenta proprio una liberazione. Immergersi dopo aver ascoltato i propri sogni, e fatto convogliare tutte le parti di sé, è il ritrovarsi di tutte le identità. Questa è forse l’unica cosa che può scongelare quel mare pigro in cui siamo intrappolati: solo tuffandoci e agitando le acque possiamo stimolare un cambiamento e dare avvio a una trasformazione. Il cammino ci definisce, ma la meta è sempre il mare: infinite opportunità.”

Hai un rapporto profondo con le lingue, che consideri musica. Quando scrivi in inglese, senti che la tua espressività cambia rispetto all’italiano? Ci sono emozioni o immagini che riesci a tradurre solo in una lingua piuttosto che in un’altra?

“Assolutamente sì. Prima mi arriva sempre la melodia, ed è lei a scegliere il mondo linguistico in cui fare approdare le parole. Con l’inglese mi esprimo molto, ma non esprimo tutta me. In italiano emergono emozioni diverse, così come in francese o in portoghese. Per quanto riguarda la seconda domanda, è incredibile quanto una lingua permetta di esprimere meglio o peggio un concetto e un’emozione, ovviamente in base al rapporto che si ha con essa. Ogni lingua ha una sua musicalità e un suo modo di trasmettere sensazioni uniche.”

La tua musica sembra intrecciare paesaggi sonori molto diversi, con influenze dream-folk, jazz e richiami a culture lontane. C’è un luogo o un’esperienza specifica che ha plasmato più di altri il tuo stile?

“Il mio primo grande amore ascoltava jazz e io me ne innamorai. Ricordo me stessa a 16 anni, in cucina, da sola con un bicchiere di vino e una sigaretta, mentre cucinavo delle tagliatelle alla boscaiola con del buon jazz di sottofondo. È uno dei miei ricordi più felici. Ascoltavo Thelonious Monk, Louis Armstrong, Wes Montgomery, Bill Evans, Lester Young, Coltrane, Duke Ellington, Ella Fitzgerald, Django Reinhardt, Fats Waller. Non posso dire che quel momento abbia plasmato più di altri il mio stile, ma è stata una scintilla importante nella ricerca di una musica che vibrasse con me. Crescendo, ho attratto suoni e influenze che risuonavano con ciò che stavo vivendo, e nel tempo ho sviluppato uno stile che è il frutto di tutte queste esperienze.”

Nel tuo percorso hai esplorato tanti ambiti, dalla musica al teatro, fino alla danza e alla cucina. Credi che questa poliedricità sia un punto di forza nella tua scrittura musicale? Hai mai avuto paura di perdere e di prendere una direzione chiara?

“Assolutamente, ogni disciplina ha arricchito la mia espressione artistica. Il teatro mi ha insegnato come stare sul palco, la danza è movimento del corpo ed espressione del ritmo, il clown mi ha aiutato a gestire l’imprevisto, la cucina è scambio e prendersi cura.

E riguardo alla direzione, ho avuto paura sia di prendere una direzione chiara quando ero ancora molto confusa, sia di perderla una volta trovata la mia strada nella musica. Credo che il rischio di perdersi e il desiderio di esplorare facciano parte di qualsiasi percorso artistico: l’importante è trovare un equilibrio tra libertà e radici.”

 

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