“Mondo Borfo” è un debutto che traduce la vitalità del garage e della psichedelia in un’esplosione di energia cruda e disarmante. I Polpo Kid hanno un approccio che non cerca la perfezione, ma la verità: ogni traccia è una fotografia di un momento vissuto, intrisa di un’urgenza che si percepisce ad ogni ascolto. Il disco è una prova di coerenza artistica, in cui le libertà sonore sono vissute come una forma di sfida contro ogni convenzione, ma anche come un atto di affermazione di ciò che è veramente necessario per la band.
Com’è stato registrare un intero disco in autonomia?
C’è una grande libertà in termine di tempo e risorse, con conseguenze dirette sul processo creativo. È stata una scelta precisa per poter registrare quando e quanto volevamo senza dipendere da nessun altro. Il fare da sé e fare con poco è parte integrante della nostra filosofia. We Jam Econo, come dicevano i Minutemen. Abbiamo comunque cercato di non fare e disfare troppe volte, per non perdere spontaneità.
Una cosa da considerare è che nessuno di noi registrava o mixava, abbiamo iniziato con questo progetto. Preferiamo che le cose non vengano perfette, ma che almeno le responsabilità siano tutte nostre. Male che vada nel processo si studia e impara qualcosa.
Siccome non si può andare alla cieca, comunque, il mastering è stato affidato a Filippo Passamonti, un bravissimo professionista che ci ha anche aiutato con preziosi feedback e consigli durante la fase di mix.
Quali sono stati i vantaggi e gli svantaggi del lavorare fuori da uno studio tradizionale?
Tra gli svantaggi sicuramente il clima! Nel nostro scannatoio/box di Famagosta fa freddo di inverno e caldo d’estate, non si vede la luce del sole e se per caso durante una rec deve parcheggiare una moto nel box adiacente, tocca rifare tutto da capo!
Gli spazi in cui suoniamo poi sono quelli che sono, la strumentazione è limitata e la maggior parte del mixaggio la facciamo in cuffia. Facciamo molti ascolti di controllo, che diventano fondamentali. Abbiamo pochi microfoni selezionati con cura e la sfida è anche cercare di tirare fuori il meglio con quello che c’è. Il nostro genere fortunatamente ci aiuta perché non richiede grosse produzioni.
Abbiamo potuto sicuramente sperimentare molto senza dover guardare l’orologio, ma siccome stiamo imparando, fare da soli significa anche sbagliare moltissimo, sbattere la testa un sacco di volte. Quello che alla fine ti porti a casa è in ogni caso impagabile.
Come avete deciso quando un pezzo era “finito”?
Ancora adesso ci capita di stravolgere qualche passaggio di brani che son presenti nel disco. Diciamo che la rec lo ferma e ne sancisce l’ufficialità nel solco, ma per noi il cantiere è sempre aperto.
Che tipo di atmosfera c’era durante le sessioni casalinghe?
Meravigliosa. Alla fine siamo un gruppo di amici che sta facendo ciò che più gli sta a cuore, insieme. Non c’è niente di meglio. Poi se a fine sessione si fa anche una spaghettata, è il massimo.
Avete imparato qualcosa di inaspettato su voi stessi durante il processo?
Quando si fa un lavoro articolato come comporre e registrare musica, servono pazienza, precisione e dedizione. Emergono le varie personalità: chi traina il gruppo e rompe le palle e chi si mette a disposizione per portare avanti un’idea comune. Abbiamo imparato a conoscere questo lato di noi stessi. E soprattutto, ci scambiamo un sacco di musica!