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Con il suo EP “Grazie per il trauma”, Matilde Montanari — vincitrice de I Visionatici 2025 — porta nella scena italiana un lavoro nato senza mezzi ma con un’urgenza disarmante: dire la verità, anche quando trema. Registrato interamente in presa diretta, senza autotune né editing, l’EP è un diario sonoro che attraversa fragilità, resistenza, guarigione.
In questa intervista, Matilde racconta il coraggio “senza portafoglio”, la scelta delle imperfezioni e il punto in cui, tra dolore e ricostruzione, ha finalmente riconosciuto sé stessa.


Intervista

Il tuo EP nasce “senza portafoglio” ma con molto coraggio: qual è stato il momento in cui hai capito che lo avresti fatto comunque, anche senza mezzi?

A dirla tutta, non c’è stato un momento preciso in cui ho pensato: “Lo faccio anche senza mezzi.”
Forse perché i mezzi non li ho mai avuti, ma avevo qualcosa di più forte: la certezza che un po’ avrei suonato in strada, un po’ nei pochissimi locali che ti scelgono per la musica e non per quanta gente porti, e un po’ avrei potuto contare su quella piccola tribù di amici artisti e tecnici con una fiducia sincera nel mio progetto.

Per questo non mi sono davvero fatta la domanda: sapevo che, anche in modalità sopravvivenza, in qualche modo ci sarei arrivata.
Il vero click è stato quando ho visto che le persone intorno a me ci credevano davvero: i musicisti che hanno messo il loro tempo – e il loro cuore – senza chiedere nulla in cambio, come se il progetto fosse anche loro. E poi quei premi dei contest sparsi per l’Italia, che sono andata a riscuotere uno per uno: piccole scintille che messe insieme hanno acceso l’EP.


Hai scelto la presa diretta, senza autotune né editing: qual è “l’imperfezione” che, ascoltandoti, hai deciso consapevolmente di non correggere?

La cosa che avrei potuto correggere è quel piccolissimo tremito che a volte mi scappa alla fine di alcune frasi.
In studio, mentre registravamo in presa diretta, sentivo il respiro, le mani sui tasti, le voci dei musicisti che dicevano “ho sbagliato, take two”, e in mezzo a tutto questo c’era quel momento in cui il fiato esita. Di solito lo nascondo, lo controllo. Ma quella volta l’ho lasciato lì, come una piccola incrinatura che racconta la verità.

E ho capito che era proprio quello che volevo far sentire: l’imperfezione che più mi somiglia, quella che rende ogni esecuzione unica e vera.


In “Grazie per il trauma” sembra che ogni brano rappresenti una fase della guarigione: c’è un punto dell’EP in cui hai sentito di ritrovarti davvero?

Sì, nel brano “Disordine”.
È la stanza emotiva in cui sono stata più a lungo, quella in cui impari a stare in mezzo alle cose rotte senza più volerle spingere sotto il tappeto. Quando l’abbiamo registrata, mi è sembrato di riconoscermi nitidamente: non più la versione ferita, non ancora quella risolta… ma quella in transizione.

La persona che dice: sì, fa male, ma sto andando avanti lo stesso.
È lì che mi sono ritrovata.


Dopo un lavoro così intimo e “vivo”, che tipo di artista senti di voler diventare da qui in avanti?

Dopo un lavoro così intimo e “vivo”, voglio diventare un’artista che non ha paura di mostrarsi per quello che è, anche quando costa.
So che a volte ci sono compromessi, ma il mio obiettivo è restare vera: portare sul palco cose semplici, riconoscibili, in cui chi ascolta possa ritrovarsi.

Voglio cantare il bello e il brutto, l’ansia, le fragilità, ma sempre con uno spiraglio di luce e con la mia esperienza personale a guidare le parole.
Sto lavorando su un tema che vivo in prima persona: l’ansia in tutte le sue forme, il sentirsi “mai abbastanza”, il peso di dire troppo o troppo poco.

Chi vuole capire davvero cosa significa “Grazie per il trauma” può ascoltare la prima traccia, “Fiori (0)”: lì racconto chi sono e come, da inguaribile ottimista, cerco di trovare luce anche nelle crepe.

Se c’è una direzione, è questa: più verità, più presenza, più umanità. Suonare, sbagliare, sorprendersi e portare sul palco ogni emozione, senza filtri.

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