Con “Mantra”, i Lande firmano un nuovo capitolo della loro ricerca sonora e concettuale. Il brano affronta il dualismo tra conforto e prigionia nelle abitudini quotidiane, riflettendo sul bisogno umano di trovare ordine nel caos e sull’impossibilità di controllare davvero il flusso del mondo. Un tema profondo, tradotto in una trama musicale in cui campionamenti claudicanti, ritmiche spezzate e sitar intergalattici diventano materia viva, plasmata con un approccio che unisce sperimentazione e precisione artigianale.
La band costruisce così un linguaggio personale, dove l’imperfezione diventa una cifra estetica e la contaminazione tra elettronica e acustica assume un valore narrativo. “Mantra” non è solo un singolo, ma un piccolo manifesto dell’attitudine dei Lande: giocare con il suono per restituire emozioni autentiche, anche quando arrivano da dettagli sporchi o frammenti casuali.
Abbiamo incontrato il gruppo per un approfondimento sul processo creativo, sul ruolo dell’imperfezione e sulle tecniche che danno vita al loro universo sonoro, in questa intervista per il MEI.
Avete parlato di “campionamenti claudicanti” e “sitar intergalattici”: come avete costruito questi paesaggi sonori?
Abbiamo iniziato da registrazioni molto semplici: frammenti di field recordings — suoni ambientali, sample ricampionati più volte con effetti dilatati — e qualche take di sitar e sintetizzatori. Poi abbiamo trattato quei materiali come se fossero mattoncini di una scultura: li abbiamo tagliati, spostati, rallentati, granularizzati. I “campionamenti claudicanti” nascono quando smonti un loop perfetto e lo rimonti lasciando intenzionalmente le zigzagature — micro-ritardi, variazioni di pitch, transienti lasciati a metà — così la ripetizione non è mai prevedibile.
Il “sitar intergalattico” è un ibrido: c’è il riferimento timbrico del sitar (risonanze alte, drone armonico) ma lo collochiamo in catene di effetti che ne stravolgono il contesto—riverberi con impulsi lunari, modulazioni, pitch delay in armonie non temperate—per dare la sensazione che venga da un luogo familiare ma non terrestre.
Quanto conta per voi l’imperfezione nella definizione del vostro sound?
L’imperfezione è fondamentale. Se tutto è clinico, perdi la vita del pezzo. Le sbavature ritmiche e le texture non perfette sono spesso i punti d’appiglio emotivo: tirano fuori vulnerabilità, intimità, e rendono la traccia umana. Non inseguiamo l’errore per il gusto dell’errore, ma accettiamo e modelliamo ciò che nasce accidentale perché spesso è lì che arriva l’originalità. In termini pratici: lasciamo parti fuori-quantizzate, non rimuoviamo ogni respiro o rumore, e useremo una saturazione per «umanizzare» il digitale.
Vi piace l’idea di lavorare “a pasticciare” con i suoni: come nasce concretamente un brano dei Lande?
Non seguiamo un percorso fisso, ma spesso parte da un’idea minima (una frase vocale, un pattern di synth, o un campo registrato). Lo loopiamo e cominciamo a “pasticciare” — tagli, pitch, reverse parziale, granularizzazione; fino a ottenere un’atmosfera. Poi costruiamo una struttura con bassline e percussioni, tenendo cura del contrasto dinamico. La voce poi arriva presto: la registriamo quando la struttura ha già un’emozione netta, così il canto si adatta all’atmosfera e non viceversa. Poi automazioni, effetti e rifiniture: è qui che il pezzo prende personalità, con dettagli che emergono alla terza o quarta ascoltata.
È un approccio ibrido: parte sperimentale/sonoro e finisce con disciplina formale di songwriting.
Ci sono software o strumenti analogici che sentite come imprescindibili per la vostra ricerca?
Abbiamo i nostri preferiti (alcuni imprescindibili per il nostro workflow):
- DAW: Logic Pro X per l’editing, il lavoro sui sample e ovviamente per i mix più tradizionali.
- Synth Campionatori e Sample Engines: Akai MPC One, OP-1 e Digitakt per timbriche ibride e campionamenti o semplicemente quando vogliamo far esplodere un suono.
- Strumenti analogici classici: chitarre elettriche, basso, piani elettrici e strumenti etnici come l’harmonium indiano. Insomma, non è tanto il brand o lo strumento: è avere qualcosa che risponda in modo imprevedibile.
Come bilanciate la componente elettronica con quella più intima e acustica?
La regola è mantenere uno spazio chiaro per l’intimità (di solito la voce e strumenti acustici) e far crescere attorno la componente elettronica come paesaggio. Cerchiamo di tenere la voce in posizione centrale ma la circondiamo con delays e reverbs che la “spazializzano” senza smarrirne l’immediatezza. Dinamiche e automazioni poi sono cruciali: nei momenti intimi spremiamo via l’elettronica, mentre nei momenti più ampi lasciamo che i synth raccontino lo spazio. L’equilibrio non è statico: ogni brano ha un suo rapporto tra caldo umano e freddo sintetico, e il gioco sta nel decidere quando uno sovrasta l’altro per massimizzare l’effetto emotivo.
 
				 
					

