Skip to main content

Nel vasto e spesso rumoroso panorama del pop contemporaneo, MAIA si presenta come un progetto fuori dagli schemi: una cantautrice virtuale, con voce sintetica ma testi e canzoni scritte da un’autrice reale, che per ora sceglie di rimanere anonima. Un’operazione che solleva più di una domanda su identità, rappresentazione, presenza scenica e intelligenza artificiale, ma che prima di tutto si manifesta attraverso la musica. E infatti il singolo d’esordio Cuore colpisce proprio per la sua coerenza artistica: una canzone pop essenziale, ironica e lucida, che racconta una vendetta amorosa con tono asciutto e scrittura precisa.

MAIA non è un avatar iperrealistico né una performer olografica: è una voce digitale costruita per interpretare brani originali. L’attenzione non è tanto sul volto o sulla personalità fittizia, quanto sulla possibilità di comunicare emozioni vere attraverso una voce artificiale. Il progetto esplora così il confine tra umano e artificiale, ma senza indulgere nella fantascienza o nello spettacolo tecnologico. MAIA è un dispositivo narrativo, un mezzo espressivo scelto per raccontare qualcosa di autentico in modo inedito.

MAIA è la prima cantautrice virtuale italiana. Qual è il percorso che ti ha portato a ideare questo progetto?
MAIA è nata per gioco, come certe cose che sembrano leggere ma poi ti cambiano la traiettoria. Stavo testando strumenti di intelligenza artificiale per lavoro, per capire come funzionavano, come potevano essere utili nella comunicazione. E quasi per caso, o forse no, ho ricominciato a scrivere canzoni, dopo anni in cui le parole restavano in silenzio dentro di me.
Solo che quelle canzoni non suonavano bene sulla mia voce. Così ho pensato: potrei darle a qualcun altro. Ma il mondo degli autori è blindato, come una stanza con le finestre murate. Allora ho scelto di aprire una porta. Ho smesso di vedere quel limite come un ostacolo, e l’ho trasformato in una strada. Ho creato MAIA per questo, per dare voce a quei brani che non trovavano casa, per esplorare un modo nuovo di esistere nella musica, senza etichette, senza corpo, ma con tutta l’anima possibile.

Nel comunicato stampa sottolinei che l’intelligenza artificiale è solo uno strumento, non il messaggio. Cosa intendi esattamente?
Intendo che il messaggio lo scrivo io. Ogni parola, ogni verso, ogni immagine è frutto della mia vita, del mio sentire, della mia mano. I testi sono umani al cento per cento, come lo è l’esperienza da cui nascono.
L’intelligenza artificiale, in questo progetto, è solo uno strumento, come un pennello, una lente, una voce prestata. MAIA non è un generatore automatico, è un corpo vuoto che io riempio di significato.
La tecnologia mi serve solo per fare spazio a una nuova forma di espressione, per liberarmi dall’obbligo della presenza fisica, dell’identità visiva, del mercato. È un mezzo, non il centro.
Il cuore di tutto resta la scrittura. E la scrittura, quando è vera, non ha bisogno di giustificarsi.

Il brano “Cuore” mescola ironia e lucidità emotiva. Come nasce questa traccia e quale fase del processo arriva per prima: testo, melodia o concept?
“Cuore” è nato da un ricordo che non brucia più, ma che meritava di essere raccontato. Il tradimento l’ho vissuto tempo fa, e lo dico senza giri di parole: fa schifo. Ti toglie l’equilibrio, ti fa vivere come su un pavimento di vetro, incerta su dove mettere i piedi.
Non è un tema che mi riguarda più, oggi, e non è un fantasma che torna. Ma un giorno, quasi per caso, ho pensato: quella storia non ha mai avuto un vero finale. E allora l’ho scritto.
Con un po’ di ironia, perché a volte l’unico modo per guardare in faccia il dolore è riderci sopra.
Poi è arrivata la voce di MAIA, che ha saputo cantarlo con quella distanza sintetica che rende tutto più nitido, e per certi versi, cinico e freddo.

Qual è stato il lavoro più impegnativo nel dare vita a un progetto come MAIA, in cui si fondono tecnologia e scrittura personale?
Potrei raccontarvi che la sfida più grande è stata dare un’anima alla tecnologia, ma vi mentirei. La verità? Il lavoro più impegnativo è stato allenare i tool, farli funzionare insieme senza che uno mandasse tutto in tilt.
Ottenere un output coerente, preciso, che non suonasse come un karaoke alieno, è stato un percorso a ostacoli fatto di prompt, crash, rendering infiniti e immagini generate che spesso erano oggettivamente brutte.
Sugli arrangiamenti, poi, ho dovuto fare un sacco di ritocchi manuali, altro che magia dell’automazione. È stato artigianato digitale, con le manine.
E comunque, lo dico con affetto, se avessi voluto far cantare queste canzoni a una persona vera, sarebbe stato anche peggio. Gli esseri umani sono molto più difficili dell’AI.
Almeno l’AI non ha ego, non sparisce, non ti dice “non mi ci sento” mezz’ora prima della registrazione. Ci metto più tempo a scegliere un filtro su Instagram che a far cantare MAIA.
Quindi sì, il lavoro è stato lungo e complesso, ma ne è valsa la pena. E soprattutto, mi diverte un mondo!

La voce di MAIA è sintetica, ma i testi sono profondamente umani. Come bilanci questi due aspetti nella tua produzione?
Non è qualcosa di complicato, anzi. I tool vocali basati su AI oggi sono incredibilmente avanzati, se sai usare i prompt giusti, riesci a ottenere risultati impressionanti.
Il vero cuore del brano resta il testo, e quello è mio, scritto a mano, parola per parola, con tutta la carne viva che comporta. Ma quando quel testo viene cantato da MAIA, succede qualcosa.
Ho scritto brani anche molto più emotivi e drammatici rispetto a Cuore, e ti assicuro che la voce sintetica di MAIA riesce a far venire i brividi. A volte più di certe voci reali.
C’è qualcosa nella sua distanza, nella sua freddezza controllata, che rende tutto più nudo. È come una lama pulita: non urla, ma taglia.

In un contesto musicale dove l’esposizione personale è quasi obbligata, che valore assume per te la scelta di restare dietro le quinte?
È una forma di libertà, e anche di pudore. In un mondo in cui tutto dev’essere mostrato, io ho scelto il velo. MAIA è la mia maschera, ma come nelle antiche tragedie greche, è attraverso la maschera che la voce si amplifica.
Restare dietro le quinte mi permette di parlare con più sincerità. Di non dover “essere” qualcosa per forza. MAIA può piangere senza che io venga guardata. Può ironizzare senza che nessuno mi chieda se sto bene.
È un modo per essere più presente, proprio attraverso l’assenza.

Lascia un commento