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Blacktar non è un disco da playlist. È un racconto viscerale, una confessione senza filtri che si consuma in undici capitoli dove il rock alternativo si mescola al grunge come a voler graffiare la pelle di chi ascolta. Gli IYV si mettono a nudo, e lo fanno con una scrittura cruda, spesso dolente, che fa del dolore la propria cifra stilistica. Ogni pezzo è una ferita aperta: Synchronize to the Shelter e Renamer affondano nelle viscere della dipendenza, Flow e Nightmareas la raccontano come un amore tossico, impossibile da lasciare. Il disco è intenso, a tratti disturbante, ma mai autoreferenziale. È semmai un atto di sopravvivenza. Non c’è compiacimento nel fondo toccato, solo un disperato bisogno di tornare a galla. E no, non c’è happy ending. Solo un cristallo fragile da maneggiare con cura.

Blacktar si sviluppa come un libro in 11 capitoli: come avete costruito l’ordine delle tracce?

Tutta la tracklist del disco è stata scritta sotto forma di provini chitarra e voce, decisamente rough. I brani sono stati scritti in ordine cronologico, dal primo all’ultimo, ad esclusione di My Words Are Not Enough che faceva parte di un periodo di scrittura precedente. Il “disco” è stato ascoltato svariate volte in quella forma grezza per comprendere se tutto fosse al suo posto.

Quando l’abbiamo ufficialmente registrato avevamo già una traccia di ciò che sarebbe stato.

 

Cosa vi interessava raccontare oltre la dipendenza?

Vedi, la storia di Blacktar parla di dipendenza in senso molto ampio. L’uscita da un periodo di distruzione, la comprensione di sé e dei perché, la ricerca di un nuovo posto dopo la totale disfatta. Questo percorso non si risolve in pochi mesi, si parla di anni di risalite e ricadute, gioie e sconforto. Gli strascichi sono ovunque, così come il concetto di dipendenza. Infatti Blacktar non parla di droga, parla del lato umano della dipendenza. Il disco racconta le sfumature dietro a questi eventi e di chi li ha vissuti, nel tentativo di risalire e tornare a comprendere come essere sé stesso. Quindi parliamo più di “evoluzione umana”, il ché ci affascina molto.

 

Come si passa, nella scrittura, dalla memoria individuale a una narrazione universale?

Non penso esista un metodo universale seguito da tutti, dipende dallo scopo, dalla storia raccontata, dal perché la racconti e chissà quante altre variabili. Nel caso degli IYV e di Blacktar la narrazione avviene attraverso frammenti della storia, sogni, spunti, pensieri, riflessioni, cose che ci hanno colpito direttamente e che sono state poi riportate su carta, in momenti separati. Questo bene o male succede per tutti i pezzi di tutti i precedenti album. Non è che un giorno ti metti lì e a tavolino dici “adesso scrivo una storia su questo e quello”, non funziona. I testi da questo punto di vista possono risultare ermetici, ma se scavi a fondo possono essere compresi. Soprattutto perché la loro scrittura rappresenta anch’essa lo stato d’animo presente nel concept che viene raccontato. Per quanto riguarda la parte strumentale, è cresciuta insieme alle melodie vocali, pertanto è affine ai contenuti.

 

Avete mai avuto paura che la coerenza narrativa potesse sacrificare la varietà musicale?

No, non in questo caso. Come detto poco fa, tutto è stato scritto naturalmente ed è stato un processo fluido che ha portato al risultato. Niente di Blacktar è artefatto, costruito a tavolino, studiato meccanicamente. Per questo il risultato è autentico. La coerenza narrativa è data dal tema che tuttavia si sviluppa in momenti con molti contrasti tra loro, pertanto la varietà musicale ne ha giovato.

 

Se doveste sintetizzare la storia che raccontate in tre parole, quali scegliereste?

Comprendi te stesso

 

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