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Con SHOCKINI, I SORDI firmano il loro lavoro più vivo, scomodo e necessario. Un disco che non nasce da un concetto, ma da una serie di micro-esplosioni interiori che hanno scosso il loro modo di guardarsi e di scrivere. Nessun compromesso, nessun desiderio di apparire coerenti: l’unica bussola è l’urgenza emotiva, la necessità di dire le cose come sono, anche quando fanno male.

Ne abbiamo parlato con Matteo e Riccardo, che ci hanno accompagnato dentro la genesi del disco, tra scontri creativi, nuove consapevolezze e quella precarietà esistenziale che oggi definisce una generazione.


1. “SHOCKINI” nasce da piccoli shock che vi hanno cambiati: qual è stato quello più radicale nella scrittura?

«Il nostro scrivere insieme è sempre stato burrascoso, e Shockini non ha fatto eccezione. La vera differenza è stata l’urgenza: non dare mai per scontata la possibilità di essere ascoltati o di poter usare la parola in musica. Questo ci ha costretti a togliere tutto il superfluo, a tenere solo ciò che era davvero essenziale al messaggio.»


2. Non cercate coerenza stilistica, ma emotiva: c’è un brano arrivato solo dopo un vero scontro creativo?

«Praticamente tutti. È più facile dire quelli in cui abbiamo litigato meno: associazione sale — Matteo ha scritto la parte cantata e Riccardo quella parlata —, ghendarà, dove la parola è usata soprattutto per il suo suono, e va bene, che è nato quando eravamo semplicemente stremati.»


3. Il giovane adulto dentro il proprio tempo è un tema forte: cosa vi ha spinto a raccontarlo?

«Ce ne siamo accorti solo quando il disco era finito. Durante la composizione volevamo solo scrivere di ciò che ci importava davvero, di ciò che viene dal nostro vissuto. Abbiamo poco più di trent’anni: il confronto con la contemporaneità è una conseguenza naturale di chi siamo.»


4. Avete definito il processo come un viaggio “scomodo”: quale verità avete trovato alla fine?

«La scomodità sta in una doppia polarità: da un lato lavorare su se stessi per illuminare ciò che non vogliamo vedere e che ci fa vivere peggio; dall’altro accettare la propria condizione. Questa convivenza è la verità con cui ancora facciamo i conti.»

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