A distanza di quasi quarant’anni, uno dei dischi più iconici del beat italiano ritorna su vinile, su Bandcamp, e dentro un tempo che ha ancora bisogno di ribellione.
Certe storie non finiscono, fanno giri immensi e poi ritornano. E tornano con tutto il loro carico di suono, poesia, nostalgia e voglia di riscrivere la realtà.
È il caso de “Il nostro è solo un mondo beat”, l’album d’esordio de Gli Avvoltoi, uscito nel 1988 per Contempo Records e tornato oggi su vinile e sul loro Bandcamp – arricchito da due inediti che, più che bonus track, sono ponti tra passato e futuro, tra ciò che siamo stati e ciò che possiamo ancora diventare.
Una band che ha fatto scuola nel beat italiano e che oggi torna con una formazione composta da Moreno Spirogi (voce), Nicola Bagnoli (tastiere), Sandro Piu (chitarra), Antonio “Trebbo” Nucci (basso) e Alessandro Paci (batteria). Gli Avvoltoi non hanno mai cercato scorciatoie: sono stati e sono ancora oggi un atto di resistenza musicale e culturale. Lo dimostrano questi due nuovi brani che accompagnano la ristampa – “Un uomo rispettabile” e “Scenderemo nelle strade” – che sembrano urlare contro quel perbenismo che il punk aveva già provato a spezzare. Evoluzioni interessanti, sì, ma anche nostalgie che non vogliono morire.
Il nostro è solo un mondo beat è più di un titolo. È un manifesto.
Come è nato e quanto vi rappresenta ancora oggi?
La mia generazione arriva dalle sonorità della prima metà degli anni ’80, dove c’era un forte senso di appartenenza. Venivamo tutti da influenze punk e new wave: un mondo che ci dava una forza chiamata sogno, chiamata ribellione. Nessun muro davanti, solo speranze.
A un certo punto arrivarono le prime ristampe di gruppi ‘60s e nacquero i primi live ispirati a quelle sonorità. E così, come un fiume in piena, ci ritrovammo immersi in quel mondo.
Nascono così Gli Avvoltoi, con una particolarità: cantavamo in italiano, mentre quasi tutti gli altri sceglievano l’inglese.
Era il 1988 quando cinque ragazzi andarono a Firenze a firmare con Contempo. Nasceva così Il nostro è solo un mondo beat, un disco che è diventato il manifesto del nostro essere band. Eravamo giovani, genuini, pieni di passione. E forse è stata proprio quella la nostra forza.
La scena indipendente italiana vi deve molto.
Cosa ricordate degli anni ’80 e ’90 e cosa pensate della scena attuale?
Era tutto diverso. Nessuno aveva manie di arrivismo. C’era la voglia di emergere nella propria dimensione, non in quella degli altri.
Oggi tutto corre veloce, si cerca il successo immediato, spesso dimenticando la passione e la proposta artistica autentica.
Negli anni ’80 e ’90 si aveva l’impressione che ci fosse ancora molto da inventare. Era un’epoca più genuina, con meno strumenti ma più urgenza creativa.
Il vostro linguaggio ha sempre intrecciato musica e altre arti.
Quanto conta per voi la componente narrativa ed estetica?
È fondamentale. Già nei primi dischi i testi erano legati al suono e restavano “facili”. Ma col tempo, in progetti come Confessioni di un povero imbecille, il narrato è diventato centrale.
Abbiamo sempre cercato il dialogo con altre forme espressive: letteratura, cinema, illustrazione. Anche nei concerti abbiamo spesso collaborato con altri artisti. È una dimensione che ci arricchisce e ci ispira.
E oggi, riascoltando quei brani?
C’è un pezzo che sentite ancora oggi come una scintilla accesa?
Appartengono a un’epoca lontana, certo, ma li suoniamo ancora dal vivo.
E il pubblico continua a emozionarsi. Quel disco è rimasto nel cuore di tante persone, ed è per questo che ci rappresenta ancora.
E il futuro?
Dove andrà il beat degli Avvoltoi?
Siamo sempre rimasti fedeli alle nostre radici, ma abbiamo saputo cambiare pelle.
Quindi più che di beat, oggi possiamo parlare di Avvoltoi: un’identità che evolve, ma non si snatura.
Ascolta ora
Il nostro è solo un mondo beat
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Bandcamp
Un uomo rispettabile / Scenderemo nelle strade
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