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Il nuovo album di Giuseppe Cucè è un viaggio emozionale che si muove tra sonorità minimali e testi intensi. “È tutto così vero” ci trascina subito in un’esperienza viscerale, dove il caos diventa liberazione. “Ventuno” è un brano potente nella sua delicatezza, che lega amore e spiritualità. “Dimmi cosa vuoi” mostra il lato passionale e resiliente di una relazione, mentre “Fragile equilibrio” è poesia pura sull’instabilità che ci rende vivi. “La mia dea” omaggia la madre con una delicatezza che colpisce al cuore. La seconda parte del disco si tinge di introspezione malinconica: “Cuore d’inverno” e “Tutto quello che vuoi” parlano di distanza e alienazione con grande lucidità. “Una notte infinita” tocca corde universali di assenza e attesa, mentre “Di estate non si muore” lancia un messaggio politico e identitario con parole taglienti. Un disco elegante, profondo e sincero.

 

Cosa significa per te il titolo “21 grammi”? È davvero possibile racchiudere l’anima in un numero?

21 grammi è un simbolo. Non è una misura scientifica, ma un peso dell’invisibile. È quel poco che resta quando tutto il resto se ne va. Non credo si possa racchiudere davvero l’anima in un numero, ma credo che a volte abbiamo bisogno di una cifra per dare un corpo all’assenza, una forma all’indicibile. Quei 21 grammi sono la traccia che lasciamo, il suono dopo il silenzio, l’eco di ciò che siamo stati.

 

Ogni traccia sembra sollevare una domanda più che dare una risposta. Qual è quella che ti accompagna da sempre?

La domanda che mi attraversa da sempre è: cosa resta davvero di noi, una volta che le parole si spengono e il tempo passa?

Non cerco risposte definitive. Preferisco abitare il dubbio, lasciare spazio all’ascolto. Forse è lì che si nasconde la verità: tra ciò che non sappiamo spiegare e ciò che sentiamo con l’anima.

 

“Ventuno” rappresenta un cuore pulsante del disco: in che modo l’hai costruita, liricamente e musicalmente?

“Ventuno” è nata come una confessione sussurrata. L’ho costruita per sottrazione, togliendo il superfluo, fino a far emergere l’essenziale. Liricamente è una lettera a ciò che non si può toccare, ma che ci tiene in vita: la memoria, l’amore, la presenza che resta anche quando tutto sembra svanire. Musicalmente ho cercato un equilibrio tra fragilità e potenza: pochi strumenti, ma scelti con cura, perché ogni suono potesse respirare.

 

Il concetto di tempo è molto presente: come vivi la tensione tra ciò che è effimero e ciò che resta?

Il tempo per me è una materia emotiva. Scorre, ma a volte si ferma nei ricordi, negli sguardi, nelle cicatrici. Vivo questa tensione ogni giorno: tra il desiderio di trattenere e la necessità di lasciare andare. L’effimero mi affascina perché è fragile e autentico, ma cerco sempre un gesto che resti, una parola che non svanisca, un suono che possa durare oltre il tempo che lo ha generato.

 

Secondo te, che cosa resta davvero di noi dopo il passaggio?

Credo restino le impronte invisibili: un gesto gentile, una canzone ascoltata in silenzio, una verità detta con coraggio. Non sono le cose materiali a sopravvivere, ma la qualità delle nostre relazioni, delle emozioni che abbiamo saputo accendere.

Resta l’amore. Resta ciò che abbiamo toccato senza mani. Resta il segno che abbiamo lasciato nel cuore degli altri.

 

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