Con il brano “Per Giulia”, la giovane cantautrice Giulia Trovò costruisce un ponte tra la sé bambina e la donna che è diventata, trasformando la fragilità in forza e la paura in bellezza.
Dalla timidezza degli esordi ai primi palchi importanti, Giulia ha trovato nella musica un modo per dare voce alle emozioni che spesso restano in silenzio, senza mai perdere empatia e autenticità.
In questa intervista ci racconta come nasce la sua scrittura, cosa significa per lei guardarsi allo specchio attraverso una canzone, e quanto l’esperienza nella musicoterapia con ANFASS abbia cambiato il suo modo di vedere — e vivere — la musica.
Intervista a Giulia Trovò
1. Il brano nasce come un dialogo con la tua “te bambina”.
Se potessi incontrarla oggi, quale sarebbe la prima cosa che le diresti — e cosa pensi ti risponderebbe?
Probabilmente le racconterei tutte le cose belle che siamo riuscite a fare in questi anni.
Perché mai mi sarei immaginata, nel mio piccolo, che le mie canzoni potessero arrivare a così tanta gente.
Sono sempre stata timidissima — c’è stato persino un momento in cui ho smesso di prendere lezioni di chitarra perché mi terrorizzava l’idea di esibirmi davanti agli altri.
Il saggio di fine anno della scuola di musica era un incubo.
Ecco, forse la me bambina mi odierebbe un po’, perché siamo finite a fare proprio la cosa che temevamo di più.
Ma credo che, allo stesso tempo, sarebbe orgogliosa.
Perché siamo riuscite a trasformare quelle paure nella nostra forza, nella cosa che amiamo di più al mondo e che vorremmo fare per sempre.
E poi c’è la me quindicenne. Lei era tanto insicura, sognava di salire sui palchi ma non sapeva se ne fosse davvero capace, né da dove cominciare.
Quella versione di me non ci crederebbe proprio. Mi direbbe: “Ma dai, stai scherzando, non è vero”.
Pensa se le raccontassi che l’anno prossimo saremo al MEI!
2. “Per Giulia” parla di fragilità, ma senza vittimismo.
Pensi che la musica possa essere un modo per dare dignità alla vulnerabilità, per renderla finalmente visibile?
Assolutamente sì.
Quando scrivi una canzone e la pubblichi, inevitabilmente la rendi anche degli altri; non è più solo tua.
E in quel momento, gli altri possono riconoscersi in ciò che canti, o forse riconoscere parti di sé che non avevano mai avuto il coraggio di guardare.
Credo che la musica sia un veicolo straordinario per dare voce a chi non può o non riesce a esprimersi.
È un modo per dire a tutti, ma soprattutto a noi stessi: “Va bene essere fragili”.
La vulnerabilità, quando viene raccontata con sincerità e senza maschere, smette di essere debolezza e diventa una forma di forza, di coraggio, di dignità.
È questo che la musica sa fare meglio di qualsiasi altra cosa: trasformare il dolore in bellezza, la paura in connessione.
3. C’è un momento preciso in cui hai capito che stavi scrivendo qualcosa di diverso, più profondo — che questa canzone non era solo una melodia ma una resa dei conti con te stessa?
Di solito quando compongo mi lascio trasportare, in modo molto istintivo: non penso troppo alle parole o alla struttura, le emozioni scorrono e io le seguo.
Dopo, magari, sistemo qualche dettaglio — una parola che suona meglio, una melodia da ritoccare — ma non stravolgo mai niente.
Con “Per Giulia” è successo tutto in modo più intenso. C’era una verità più nuda dentro, qualcosa che andava oltre il gesto di scrivere.
Era come se stessi mettendo nero su bianco parti di me che avevo sempre tenuto nascoste.
Me ne sono resa conto quando l’ho fatta ascoltare ai miei amici e ai miei parenti, senza grandi aspettative.
Ricordo che, mentre la ascoltavamo insieme, mi tremava la gamba sotto al tavolo.
E lì ho capito che non era semplicemente una canzone, ma un racconto vero e totale di me stessa, senza filtri né protezioni.
Era spaventoso e liberatorio allo stesso tempo.
4. Nel tuo percorso c’è tanta empatia e ascolto verso gli altri, anche attraverso la tua esperienza con ANFASS e la musicoterapia.
Quanto queste esperienze hanno influenzato il tuo modo di scrivere e cantare?
Tantissimo.
Credo che la lezione più grande che ho imparato in questi tre anni sia che per scrivere una bella canzone non servono melodie complicate o testi sofisticati.
Una volta pensavo fosse così, che la bellezza fosse sinonimo di complessità.
Poi ho capito che la musica serve, prima di tutto, a far stare bene le persone.
Quando suoniamo con i “Black Boys” (così si fanno chiamare i ragazzi del gruppo) succede sempre una magia: le loro canzoni in fondo sono semplici, nascono con le loro parole, ma riescono ad arrivare al pubblico in un modo incredibile.
La gente batte le mani a tempo, balla, si diverte, si emoziona.
E allora capisci che non è la perfezione a fare la differenza, ma la verità e la gioia che metti in quello che fai.
L’autenticità batte sempre la tecnica.
Questa esperienza mi ha insegnato a scrivere in modo più onesto, più diretto.
A non nascondermi dietro costruzioni elaborate, ma a dire le cose come le sento.
E credo che sia proprio questo che ha reso “Per Giulia” così personale e, spero, capace di toccare anche gli altri.


