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In “Eliotropica”, Taglialucci attraversa la città come un pellegrino disilluso: osserva l’aria che “gonfia le ruote dei Deliveroo”, le scritte sovraimpresse dei notiziari, gli spazi turistificati che consumiamo senza viverli. È un brano che esplora l’effetto fantasmatico delle nostre abitudini digitali e sociali, mappando un paesaggio urban-mistico in cui i demoni non sono entità esterne, ma versioni distorte di noi stessi. Con un’estetica sonora che unisce glitch, ambienti cinematici e stratificazioni shoegaze, “Eliotropica” diventa una lente che amplifica il caos fino a renderlo spirituale.

 

Nel brano sembri suggerire che i demoni siamo noi. Da quale osservazione quotidiana parte questa intuizione?

Non essendo credente, non temo il soprannaturale anche se mi affascina e mi cattura. Penso che l’uomo nel suo essere perfettibile, instabile, casuale, abbia una responsabilità di scelta, della quale non può né calcolare né prevedere le conseguenze, altrimenti vivremmo nel determinismo cieco. I demoni contemporanei siamo noi stessi nelle scelte che facciamo o non facciamo, non esiste una manipolazione generale dei destini e desideri. Il nostro funzionamento è peraltro molto simile a quello delle macchine, anche l’intelligenza artificiale spara a caso, si arrampica sugli specchi, quindi se fallisce la IA perché non dovrebbe fallire l’uomo. Forse l’aspetto demoniaco non sta tanto nel perseverare, quanto nella pretesa di ricerca di una legittimità esterna. Quando il rider ci porta la pizza, noi diamo una mancia come a segnare una distanza, ma siamo noi. Noi che ordiniamo siamo noi che riceviamo, siamo nella stessa struttura materiale. Quella distanza e’ il vero demone, il modo di non riconoscerci.

Che ruolo ha la dimensione urbana nella tua scrittura, soprattutto nei “non-luoghi” che citi?

Molto presente indubbiamente, mi affascinano molto i luoghi di alienazione, mi piace sentirmi un numero qualsiasi, privo di speciali. Una serie infinita di uguali, un’idea molto pop se vogliamo, del resto l’hamburger funziona perché piace al popolo e alla regina. 

In un’epoca sovraesposta, perché hai scelto un immaginario volutamente oscuro e notturno?

Ho cercato di delineare un percorso estetico, il mio paesaggio, il mio immaginario, che e’ molto più oscuro di quanto pensassi, anche l’oscurità in realtà è sovraesposta, per paradosso; ho ricercato quindi con Lorena, un immaginario psych-sci-fi-bucolico-albeggiante che mi riporta una certa serenità, una certa rassegnazione o un abbandono salutare. 

Quanto le tue esperienze musicali passate hanno influenzato il tuo progetto solista? E in che modo?

Moltissimo direi. Inevitabilmente. Dei Fou mi porto l’esperienza di condivisione di band ai tempi delle e-mail, l’inesauribile discussione post-concerto -:), ma soprattutto le prime esperienze di studio e di palco. I Fou sono i miei fratelli, loro hanno creduto in me quando non c’era davvero motivo per farlo (non ci sarebbe nemmeno ora per la verità). 

Tepco mi ha dato la possibilità di fare una cosa nuova che non immaginavo di saper fare, musicare i testi di altri, di Andrea Scarabelli nella fattispecie. 

Con Regina ho esplorato mondi sonori incredibili che conoscevo solo superficialmente, la scena dreamcore ad esempio, con gli Oneiros Way ho lavorato molto sulle ritmiche e sulle bassline, e molto più nella stesura dei brani più che nel songwriting. Il songwriting di R. è universale, una bellezza semplice, senza tempo, direi neoclassica, come la sua voce. 

Grazie a R. sono rimasto ancorato nella contemporaneità, quando mi sentivo morto ed è il regalo più bello, quello che cercavo, quello che sono. Vivo. Evviva. 

 

 

 

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