C’è il pop di matrice indie, anche se un brano come “Nettuno” ci lasciava intravedere spiragli ferrosi di un’America non troppo lontana. Ma anche tracce di fusion, di modi circensi, di belle e romantiche vedute ispirate. C’è la semplicità nel ritorno in scena di Francesco Scatigna, anche detto Diplomatico, e del suo Collettivo Ninco Nanco.
Si intitola “Il pianto delle Sirene” ed è forse un volo a planare, non senza gioco e audacia, su prospettive di consapevolezza più da adulto e meno da “Peter Pan”. È forse tutto questo distopico il vero centro dentro cui si rifugia l’ispirazione. Che poi è davvero come dice: “Se De Andrè, Dylan, Guccini e molti altri poeti ribelli fossero nati oggi sarebbero morti di fame facendo musica”. Questo sembra, ma non è un disco leggero.
Un percorso che ci racconti come dentro l’ennesima evoluzione. Dove senti che sta portando questo tragitto? Abbiamo iniziato a lavorare a questo album durante un periodo di smarrimento artistico e ideologico, ricco di punti interrogativi, di forse e di però, le classiche difficoltà di chi prova a portare avanti un progetto musicale indipendente: pochissimi fondi e tanto, tanto impegno. Questo ci ha obbligati a rimettere in discussione tutto quello che ci caratterizzava, dal sound alla scrittura dei testi.
Le Sirene e il loro pianto: il vero significato di tutto questo? Abbiamo sempre visto le sirene come figure ammaliatrici che con il loro canto portavano i marinai su rotte pericolose e distruttive. Noi invece in questo album ci siamo concentrati sulla sofferenza che queste figure sono state costrette ad affrontare a causa delle loro sembianze metà umane. Costrette a vivere in mare nell’emarginazione totale, senza poter decidere davvero da che parte stare, se sulla terra o in mezzo al mare. Abbiamo messo in discussione il loro canto ammaliatore facendolo diventare il pianto, proprio perché molto spesso chi non ha la possibilità di decidere il proprio futuro è costretto ad accettare un destino che non gli appartiene e per questo viene giudicato colpevole dai molti perbenisti di cui l’Italia è provvista.
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Questo disco parla anche di vita personale… La fine di un amore in qualche modo è l’inizio di un nuovo viaggio inatteso. Che cosa ha davvero ispirato la scrittura di queste canzoni? L’ispirazione principale l’abbiamo presa osservando la vita di persone straordinarie come Corine Sombrun e Maysoon Majidi, poi siamo passati ad osservare ciò che ci circonda ancora, dalla monotonia del mercato musicale alla censura mediatica che costringe spesso artisti e autori a vincoli sempre più deleteri e molto spesso ad abbandonare la musica per pagarsi le bollette.
Suggestiva la dimensione che disegnate dentro “Wuapò”. Ho come l’impressione che avrebbe potuto essere così tutto il disco… Wuapò è stato un brano liberatorio, tenuto nel cassetto per molti anni perché parla di una persona a me molto cara che non c’è più. Il ricordo di quel momento mi fa ancora tremare la voce quando canto questa canzone.
Traggo ispirazione da una tua dichiarazione in cui ci racconti della genesi di queste canzoni in anni di smarrimento, anni in cui chissà se qualcuno c’era lì ad ascoltarti… Un po’ sembra anche la condizione della musica di oggi. Che rapporto hai con la situazione attuale in cui la musica faticosamente trova qualcuno ad ascoltarla? Ho un bel rapporto di odio e amore con ciò che faccio e facciamo. Da una parte non riesco a fermarmi perché scrivere e cantare è ciò che mi fa star bene e che mi fa svegliare al mattino, dall’altra odio le regole e sottostarci. Penso che la musica stia perdendo sempre più la spontaneità che ha sempre fatto innamorare gli ascoltatori e al contempo stia acquistando sempre più banalità e monotonia. Parlare di stronzate è diventato figo e soprattutto paga molto di più. La musica, i testi e le canzoni in generale devono lasciare qualcosa nella mente di chi ascolta, mentre ho sempre più l’impressione che ci si fermi sempre a guardare il personaggio e non la sua musica. Se sei figo, se sei un personaggio, hai molte più possibilità, e questo uccide l’entusiasmo di quelli che come me non hanno nessuna voglia di essere fighi.
Questo è ciò che penso della musica in Italia. Quante canzoni sentite in radio che parlano di Palestina, genocidi legalizzati, di censura, di pace e di una possibile terza guerra mondiale? Se De Andrè, Dylan, Guccini e molti altri poeti ribelli fossero nati oggi sarebbero morti di fame facendo musica.