Inutile cercare qualche connessione con le mode moderne.
Inutile mettersi a scandagliare questo suono che con le abitudini italiane ha davvero poco a che fare.
Eppure, la scena italiana del vero underground passa anche da qui.
Jack Calico alla chitarra, Sebastian Halmark alle tastiere, Sergio Silva Echegoyen al basso e Francesco Benizio alla batteria.
Il nome del gruppo è un omaggio alla leggenda del funk George Clinton, che invitava a “sparare” il funk a chi non ne era ancora stato iniziato.
Eccolo, dunque, “Vol.1” — un disco strumentale in cui il funk sembra americano in tutto e per tutto: groove, ghetto e psichedelia lisergica compresi.
C’è una saudade a stelle e strisce che pare uscita da una Cadillac Eldorado del ’59, ma con suoni compatti, moderni, e aperture che lambiscono reggae e distorsioni elettriche.
Un viaggio sonoro che si muove libero, istintivo, pulsante.
Un disco strumentale… in un tempo “indie” fatto di omologazione e pop. Come vi rapportate al pubblico e alle “intelligenze” moderne?
“Il Volume 1 è nato totalmente come un esperimento. Non volevamo confrontarci col panorama musicale attuale, ma fondere le nostre sfaccettature in qualcosa di diretto e d’impatto. Alla fine ci siamo trovati in questo pianeta fatto di atmosfere eteree.”
Il funk secondo voi oggi che ruolo ha? È un reperto o un linguaggio in evoluzione?
“Il funk oggi rivive come attitudine. Sta trovando nuove collocazioni e sta vivendo una sorta di rinascimento. Molti artisti contemporanei lo reinterpretano dentro hip-hop, jazz, elettronica, rock e pop. Get on up, it’s time to get funky, and may the funk live forever.”
“Vol.1” è un disco suonato. L’elettronica che ruolo gioca in questo? È anche una provocazione ai tempi moderni?
“Un disco suonatissimo, registrato in presa diretta in due giorni e mezzo. L’elettronica è minima: qualche linea di synth e pad drum. Nessuna provocazione, solo la necessità di far suonare le cose come ce le immaginavamo nella testa.”
🎬 Guarda il video ufficiale di “Clubbing”
“Clubbing” e “Liquid” sembrano due poli opposti: il primo urbano e notturno, il secondo liquido e sospeso. Sono le due anime del progetto o tappe di un viaggio più ampio?
“Ci piace pensare le cose come un viaggio: dal caos metropolitano di ‘Clubbing’ ai mondi sospesi di ‘Liquid’, fino agli scenari di guerra di ‘Head Shift’. Ogni brano è una tappa di questo percorso dentro e fuori di noi.”
C’è un forte legame con Bologna: quanto conta per voi la comunità musicale e il vivere la musica come rito collettivo?
“Bologna per noi è un modo di vivere la musica, non solo un luogo. Nei club e negli scantinati impari che la musica è un rito collettivo: non esiste davvero se non c’è qualcuno che la riceve e la restituisce.
La comunità conta tantissimo: da soli puoi fare un disco, ma è solo dentro una scena viva che quel disco prende senso. Bologna ti spinge a contaminare, a mischiare, a non chiuderti in una bolla.”
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