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Un buon momento per la musica italiana? Per i dati rilasciati da Spotify, nella prima edizione italiana del report Loud&Clear, lo è. Dal 2017 al 2023, il royalty pool distribuito tra case discografiche, società di collecting di diritti e artisti è cresciuto del 400%, con 126 milioni di euro pagati dalla piattaforma lo scorso anno. Non solo. Gli italiani piacciono parecchio all’estero: la metà dei ricavi degli artisti italiani arriva da ascoltatori fuori dal Paese. Tra i più ascoltati all’estero, i Måneskin, Antonio Vivaldi, e non mancano Andrea Bocelli e Baby Gang.

Del resto, il mercato discografico italiano è il terzo nell’Unione europea, con una crescita nel 2023 del 18,8%, un fatturato di 440 milioni di euro e, per l’appunto, lo streaming occupa ormai una quota del 65% del mercato complessivo, secondo i dati Fimi.

E gli artisti?

Se gli artisti se la passano altrettanto bene, tuttavia, è più fumoso da stabilire. La mission esplicita di Spotify è «liberare il potenziale della creatività umana, dando a un milione di creator e artisti la possibilità di vivere della propria arte e a miliardi di fan la possibilità di goderne ed esserne ispirati». Sempre per il report Loud&Clear, sono più di 1.200 gli artisti italiani che hanno guadagnato almeno 10 mila euro di royalty (a cui si dovrebbero sommare i ricavi più o meno in linea anche delle altre piattaforme).

Un dato che per Giordano Sangiorgi, presidente dell’associazione di categoria AudioCoop e organizzatore del Meeting delle Etichette Indipendenti non è così brillante: «Diecimila euro è una cifra che va suddivisa con tutta la filiera produttiva, creativa ed artistica del brano, non va a un singolo. Non permette all’artista di vivere della propria opera dell’ingegno». Con una grande dispersione: «Più di 1.200 artisti che ricevono questi introiti con 120 mila brani che vengono immessi ogni giorno nelle piattaforme significa che abbiamo il 90% che non ricava alcunché, ma contribuisce comunque a generare introiti per le piattaforme, con la pubblicità e via dicendo».

Questione di trasparenza

Obiettivo di queste analisi è aumentare la trasparenza della compagnia che è stata più volte attaccata sul tema delle royalty agli artisti («Già la musica è quasi completamente gratis, perché dovete sapere che le piattaforme di streaming ci pagano un cazzo. Non ci danno niente», scriveva Salmo in una storia su Instagram a febbraio).

L’anno passato è stato in fondo un anno in cui gli occhi sono rimasti puntati sul comportamento delle piattaforme di streaming nell’entertainment: Hollywood è rimasta paralizzata per mesi per lo sciopero congiunto di attori e sceneggiatori, che chiedevano tra le altre cose un aumento dei diritti residuali, pagati quando una serie o un film vengono caricati online, e il cui calcolo risultava oscuro (Netflix, Disney, Amazon non rilasciano i dati di ascolto).

Quanto al mondo musicale, uno studio commissionato dal Parlamento europeo ha rilevato che agli artisti arriva meno del 10% dei ricavi sugli ascolti. Questo non dipende interamente dalle piattaforme: le percentuali sono stabilite dai singoli contratti che il talent stipula con la casa discografica. Quello che riguarda le piattaforme è il metodo di monetizzazione: al momento, Spotify distribuisce al detentore dei diritti il guadagno (che arriva dagli abbonamenti Premium e dalle pubblicità, e al netto di tasse, commissioni bancarie e via dicendo) in base alla quota di ascolti.

Modelli di monetizzazione

Il Parlamento europeo ha approvato a gennaio una risoluzione non vincolante in materia, in cui si chiede un quadro giuridico del settore, che non è regolamentato a livello comunitario. Una possibilità citata nello studio è un modello UCPS (User Centric Payment System), cioè incentrato sui gusti dell’utente: i ricavi che arrivano dagli ascolti del singolo dovrebbero essere ripartiti tra i suoi effettivi stream. Spotify si è unito alle altre piattaforme di Digital Music Europe (Deezer, Soundcloud e via dicendo) nel commentare: «La musica europea è fiorente grazie ai fan che amano la musica locale e continuano a scegliere di ascoltarla. Per questo contestiamo fortemente il suggerimento del report di una regolamentazione nel settore, e chiediamo ai legislatori di fare un’approfondita analisi della diversità e del successo artistico nello streaming per ottenere fatti oggettivi prima di intraprendere ogni azione», ha detto Olivia Regnier, presidente di Dme. Nel frattempo, a gennaio è entrato in vigore un limite nella monetizzazione: i contenuti che non arrivano a 1.000 stream non maturano royalty.

Gli altri dati

Quanto alle due D di Spotify (Diversity e Discovery): nel report viene segnalata una crescita degli ascolti delle artiste del 18% rispetto all’anno scorso. E in generale, è aumentata per gli artisti la possibilità di essere scoperti tramite le playlist, con più di 5.000 artisti italiani inseriti nelle playlist editoriali di Spotify.

Fonte: https://www.vanityfair.it/article/spotify-dati-italiani