Skip to main content

Sa scrivere Edoardo Chiesa, sa farlo con una personalità che da sempre non ha avuto bisogno di mescolarsi dentro i circuiti glitterati dei nuovi cantautori. Un nuovo disco oggi che dimostra la sua efficacia come autore, come suono, come voce soprattutto. “A quello che vedo non credo per niente” è un manifesto di vita, non un concept, ma un vero e proprio collettore di canzoni nuove raccolte nel tempo. E un branco come “Due come noi” resta in testa sin dalle prime battute.

Osserviamo da vicino il tuo percorso. Sin dal tuo esordio hai saputo tirare fuori del carattere che ti ha distinto sempre. Ci hai riflettuto?

No, non ci ho mai riflettuto, ma lo faccio adesso grazie alla tua domanda. Quello che so è che la mia musica ha sempre avuto poche forzature autoimposte, è sempre stata molto spontanea e sincera. Forse in questo senso le si può riconoscere un certo carattere, nel fatto che alla base di tutto ci sono le mie esperienze, i miei pensieri, il mio carattere..

Altra cosa che noto: che nonostante il tempo trascorso, i dischi, le canzoni, hai sempre tenuto stretta a te una ben precisa cifra stilistica. Nessuna rivoluzione, almeno macroscopica… vero?

Cerco sempre di raccontare le mie storie facendo soprattutto attenzione a cosa voglio comunicare. In questo senso cerco di far sì che la musica faccia da ambientazione alle parole commentandole, enfatizzandole o, se voglio, contraddicendole. In questo senso non c’è alcuna rivoluzione, soltanto il tentativo costante di valorizzare ogni canzone.

Uno dei punti fermi e la forma della canzone, del suono, della voce. Una confort zone? Soluzioni che ti mettono al sicuro?

Probabilmente con il tempo ho acquisito un mio stile in cui l’utilizzo di certi meccanismi e di alcune soluzioni è ricorrente. Se cerco una confort zone la trovo sicuramente nella chitarra. Lei rimane il punto fisso con cui si sviluppo tutto il percorso produttivo che parte dalla scrittura e termina con la produzione e arriva fino al live.

E proprio per rompere questa confort zone arriva un brano come “Il necessario”. Addirittura qui metti in gioco soluzioni urban, quasi da rapper… quasi però… come nasce?

Si tratta di una canzone in cui ho utilizzato sì le chitarre, ma anche molti sintetizzatori e sequencer. Mi piace sperimentare e questa canzone in particolare, proprio per la tematica che tratta, mi sembra perfetta per ospitare suoni più sintetici e moderni. E’ una canzone che tenta di raccontare il lato oscuro del modello di società in cui viviamo. Dentro infatti racconto la frenesia, il consumismo, l’egoismo che caratterizzano i nostri giorni.

Belle la produzione dei video. Hai sempre tenuto molto a tutto questo. Oggi, in questo tempo tecnologico e veloce, tutto questo continua ad avere ancora una sua ragione?

Parto sempre dal presupposto che se voglio fare una cosa, quella deve avere un senso ed essere ben fatta. Ho sempre cercato di costruire dei supporti video che dessero un valore aggiunto alle canzoni che raccontavano. Per questo, più che alla forma del video, ho sempre voluto dar peso ed attenzione al contenuto degli stessi cercando di aggiungere ulteriori layer di significato alle canzoni. Non amo i videoclip belli e fini a se stessi. In questo senso mi ha dato una grossa mano Nicolò Uzzauto, un giovane videomaker che ha prodotto i video dei tre singoli estratti dal disco.

https://open.spotify.com/intl-it/album/74U4RIeYbIeiycMoxlumta?si=78da999c6d084fd8