Esce il 21 aprile il nuovo singolo di Leandro Pallozzi, Canzone dell’assenza, e già dalle prime note capiamo che non sarà una semplice ballata, ma un’esperienza intima, da vivere a occhi chiusi.
In poco più di tre minuti, Pallozzi ci porta in un viaggio dentro le stanze vuote del silenzio, là dove le parole faticano ad arrivare e restano solo i suoni a parlare per noi. La sua voce profonda, quasi narrata, accarezza il testo con delicatezza. Nessun virtuosismo, nessun eccesso: solo un’interpretazione autentica, che fa spazio all’emozione e al desiderio di restare, anche quando tutto spinge verso l’assenza.
Una ballata che sa di malinconia e verità
Il brano si muove su armonie essenziali, sospese tra il pianoforte e lievi tappeti elettronici. Il mix è volutamente scarno, quasi fragile, ma mai povero. Ogni nota sembra studiata per accompagnare l’ascoltatore in una riflessione personale, senza sovrastare la narrazione.
Lo spettrogramma conferma questa scelta estetica: frequenze basse ben presenti, pochi picchi alti, dinamiche controllate. Una struttura sonora che somiglia a un abbraccio: contenitivo, ma non invadente. Perfetto per raccontare il vuoto che lascia una persona quando non c’è più – fisicamente o emotivamente.
Poesia e introspezione
Il testo è un piccolo gioiello di sensibilità: non urla mai, ma resta. Parla di distanza, ma senza rancore. È più una carezza trattenuta che un grido di dolore. C’è un desiderio sottile che attraversa tutta la canzone, una volontà di custodire ciò che è stato, anche nella mancanza.
In un momento storico in cui la musica spesso rincorre la velocità e l’effetto immediato, Canzone dell’assenza sceglie la lentezza. E per questo colpisce ancora di più. È una canzone che non chiede di essere capita, ma sentita. Che non pretende attenzioni, ma le merita tutte.