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Ci sono canzoni che raccontano una storia, e altre che invece raccontano un movimento interiore, un ritorno costante allo stesso punto. Stay, il nuovo brano di Vinicio Simonetti, appartiene a questa seconda categoria: non descrive un evento, ma una condizione. È un piccolo circuito emotivo in cui il verbo “restare” si piega, si spezza, si moltiplica fino a diventare un riflesso involontario.

Il brano non supplica e non consola. Stay osserva. Esamina quel momento sospeso in cui non si va avanti e non si torna indietro, quando rimanere diventa un gesto quasi automatico, un impulso che si ripete come un pensiero che non riesce a spegnersi. Vinicio racconta l’attesa e la sua densità, ma anche la leggerezza paradossale di chi continua a cercare un punto stabile pur sapendo che nulla, attorno, si muove davvero.

In questo senso, Stay non è una richiesta rivolta a qualcuno, ma una radiografia: cosa succede dentro di noi quando rimaniamo fermi? Cosa accade quando ci abitiamo in un ricordo, nella sua eco, nella sua ripetizione fino allo sfinimento?

La produzione amplifica questa sospensione con un equilibrio attentissimo: un freddo sintetico che convive con un calore umano sotterraneo, come se ogni suono fosse una parentesi intorno a ciò che non può essere detto. Il risultato è un brano che parla del silenzio tanto quanto della musica, un luogo immobile eppure vivo, ironico nella sua consapevolezza che l’eternità, forse, è solo l’incapacità di andarsene.

In questa immobilità lucida, Stay diventa un gesto minimo ma potentissimo: un modo per affermare la propria presenza senza la necessità di muoversi. Una canzone che non chiede, non pretende, ma rimane. E proprio per questo, colpisce.


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