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Con saint-tropez, Simona Carella prosegue il percorso iniziato con Antartide e apre un nuovo capitolo del suo concept emotivo, fatto di fragilità, colori, gelo che si scioglie e notti che sembrano fermare il mondo. La sua voce rotta, i respiri esposti e il modo in cui trasforma ciò che vive in immagini sonore la rendono una delle voci più sincere e riconoscibili della nuova scena pop.
In questa intervista, Simona ci porta dentro la notte in cui il singolo è nato, tra mare, freddezze da superare e un filo narrativo che unisce tutti i suoi brani: la sua continua evoluzione.


INTERVISTA 

1. In “saint-tropez” racconti una notte che sembra sospendere il tempo: qual è quel momento preciso che hai voluto immortalare nella canzone?

C’è una notte, per me la più bella di tutte (più del capodanno, più del compleanno) ed è quella in cui le lancette si spostano un’ora indietro e ci regalano, illudendoci, 1h in più. Tutti dicono 1h in più di sonno, io dico 60 minuti in più di vita, di esperienze. Io che corro sempre dietro al tempo la vivo come fosse un regalo. E non è scontata la persona con cui scegli di vivere questo tempo regalato.

‘saint-tropez’ nasce nella notte dell’ora solare del 2021, ricordo che faceva davvero freddo e non ero sola.


2. La tua voce rotta e i respiri sono parte del racconto quanto le parole: cosa rappresentano per te quell’imperfezione e quel fiato così esposto?

Il mio timbro è la mia linfa, il mio respiro. Non ho mai avuto una voce perfetta, a causa di un problema alle corde vocali, che ringrazio di aver superato ma che mi lascia questo rotto nella voce, che credo sia la mia forza, o almeno, per me lo è. Mi emoziona, so che emoziona anche chi mi ascolta. Dicono che sia identificativo, e questo ci piace. E poi in fondo, chi è perfetto?


3. Il mare diventa rifugio e promessa, mentre Milano resta distante e fredda: cosa cerchi davvero quando canti “non essere distaccati”?

Credo che al giorno d’oggi ci siano troppi muri, troppe cose non dette, perché si va di fretta e perché fa comodo non esporsi, non aprirsi. Milano è soltanto una metafora, ma d’impatto: la persona che voglio al mio fianco non è di certo fredda, perché io in primis non lo sono, come persona e come artista. Mi identifico più con i colori caldi di un bel tramonto a Saint-Tropez.


4. “saint-tropez” prosegue il percorso iniziato con Antartide: qual è il filo invisibile che unisce questi due capitoli del tuo concept?

Il filo delle canzoni è il filo della mia vita: scrivo di mie esperienze e quindi anche di come cambio io, mi trasformo e non vedo l’ora sempre di raccontare il capitolo successivo. In ‘Antartide’ volevo raccontare proprio il gelo che paralizza le persone, qui invece ho voglia di contatto, di presenze e di colori. Ma sono due facce della stessa medaglia, e per girarla serve solo evolvere.

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