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Con “Up and Down”, Ornella Sabia torna con un brano che mette al centro l’autenticità del percorso artistico e la complessità delle emozioni che lo guidano. Il singolo unisce scrittura visiva, radici blues e sensibilità pop, mostrando una maturità crescente all’interno della nuova scena indipendente.

 

Nell’intervista rilasciata al MEI, Ornella approfondisce la genesi del pezzo, il rapporto tra resistenza e vulnerabilità nella creazione musicale, l’importanza delle immagini urbane nel suo immaginario e il bisogno di trasformare il movimento emotivo in voce e racconto.

 

Un dialogo che riflette l’identità di un’artista in evoluzione, capace di coniugare introspezione e immediatezza con una cifra stilistica personale.

 

Il brano “Up and Down” nasce da una sensazione di “resistenza e resa”: quanto la musica per te è una forma di resistenza e quanto invece una resa consapevole?

Davvero una bella domanda, grazie per averla fatta.

La musica è il mio modo di esprimermi e di far sentire la mia voce, in senso sia letterale che figurato: è il luogo in cui elaboro sentimenti complessi, quasi mai comodi, e li trasformo in canzone. In questo senso è una forma di resistenza, una maniera di attraversare il dolore e mutarlo in qualcosa che possa, magari, fare bene anche a chi ci si riconosce. Ma è anche una resa consapevole, sì: ogni volta che vivo qualcosa di intenso, subito penso “ecco, ci devo fare un pezzo”. È come se ammettessi che certe emozioni mi attraversano e io, invece di trattenerle, le lascio fluire dentro la scrittura.

Mi piace creare testi evocativi, che parlino per immagini, così che chi ascolta possa “vedere”, “toccare”, “sentire” quello che ho provato io. In fondo, è lì che resistenza e resa si incontrano: nel gesto di accettare ciò che sento e poi trasformarlo in qualcosa che appartiene anche agli altri.

 

Nel testo si percepisce una sorta di “pendolo emotivo” tra lucidità e smarrimento. Come hai costruito questo ritmo narrativo tra parole e suoni?

Stavo correndo, di sera. Sai quei momenti in cui ti senti un po’ scollegata dalla realtà, come se ti osservassi da fuori? Ecco, io ero lì: poco lucida, molto smarrita. Ed è proprio da quella oscillazione emotiva che è nato il ritmo del brano.

Rientrata a casa avevo già in testa la melodia del ritornello. Ho scritto una frase semplice, quasi banale: “devo stare su e invece mi sento giù”. Poi ho provato a tradurla in inglese e tutto ha reso meglio. Registrandola sul telefono, ricordo di aver pensato. “ok, è una frase semplice ma il fatto che, quando canto “up” la voce sale e quando canto “down” precipita, poi risale, poi riscende, beh…è figo ed è proprio così che mi sento”. Da qui ho capito che quest’altalena emotiva doveva essere il cuore del pezzo.

All’inizio l’ho pensata come una ballata blues, un genere che mi permette di scendere in zone vocali più scure, meno comode, fuori dal mio solito range, ma molto evocative. Anche se poi Up and Down è diventato un brano pop, dentro si sente ancora quell’origine rock-blues: un andare e tornare, su e giù, proprio come l’emozione che l’ha generato.

 

L’immagine della metropolitana notturna è fortemente simbolica. Cosa rappresenta per te questo spazio urbano sospeso tra folla e solitudine?

È un’immagine che mi affascina e mi inquieta allo stesso tempo. Quando sono in metropolitana di notte, mi sembra sempre di trovarmi dentro quel bel film di Martin Scorsese, Fuori Orario: una notte che sfugge di mano, piena di facce, imprevisti, piccole storie che si incrociano senza un perché, e tu che cerchi un modo per tornare a casa e non ci riesci. La metropolitana notturna per me è questo: essere parte della folla e, nello stesso momento, completamente sola. Mi piace osservare le persone, immaginarmi le loro vite e, inevitabilmente, anche la mia. Venendo dalla provincia, da un mondo totalmente diverso, più quieto, con meno folla, ho sviluppato un occhio attentissimo al dettaglio: la vita nei piccoli centri ti allena a guardare davvero.

Sono una che nota tutto, infatti dico sempre, scherzando ma non troppo, che in un’altra vita sarei stata come Imma Tataranni.

 

Ti capita di scrivere in movimento, magari proprio durante viaggi o camminate in città?

Sì, lo faccio sempre. Sono proprio lo stereotipo di quella che in metro o in treno ha sempre un blocchetto e una penna. Butto giù, più che altro, impressioni. Poi quando torno a casa, nel silenzio della notte, cerco di dare a quelle impressioni una forma. 

 

“Up and Down” riflette anche una tensione verso l’equilibrio. Pensi che la ricerca dell’equilibrio emotivo sia un’illusione o una conquista possibile?

Non credo che l’equilibrio sia una conquista definitiva, qualcosa da raggiungere e tenere stretto. Penso più che altro che, quando impari a guardarti dentro con onestà e affronti davvero i tuoi demoni, la risalita arrivi da sola, quasi come un movimento naturale.

Detto questo, metto sempre un po’ in guardia dall’idea di una vita “perfettamente in equilibrio”. Non voglio certo celebrare lo squilibrio (o gli squilibrati !!), ma credo che ogni tanto sia necessario perdere la bussola, soprattutto per chi tende a stare troppo nelle righe. Gli artisti sono abituati a stare tra questi up and down. Perché spesso è proprio in quei momenti di disorientamento che emerge ciò che siamo davvero, i nostri desideri autentici, la nostra parte più viva.

 

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