C’è un momento, nella vita di un artista, in cui smetti di dividere il mondo in bianco e nero e inizi a convivere con le sfumature.
Per FASE, quel momento ha un nome preciso: “Stare Bene Stare Male”.
Un titolo che racchiude l’essenza del suo nuovo percorso, nato dopo l’esperienza nei Fase39 e diventato oggi una dichiarazione di identità.
Tra introspezione e potenza live, il progetto di FASE è un continuo dialogo tra fragilità e forza, buio e luce, ricerca e accettazione.
“Stare Bene Stare Male” è un titolo che sembra un ossimoro perfetto. Quando hai capito che convivere con i tuoi opposti non era una condanna, ma una forma di equilibrio?
L’ho capito nel momento in cui ho smesso di combatterli. Dentro di me ci sono sempre state due forze in contrasto: la voglia di stare bene e la paura di stare male. Per tanto tempo ho provato a scegliere da che parte stare, finché ho capito che non dovevo scegliere, dovevo solo accettare che entrambe fanno parte di me.
L’equilibrio non è assenza di dolore, ma imparare a camminarci dentro senza smettere di cercare la luce. “Stare Bene Stare Male” nasce proprio da questa consapevolezza: non c’è pace senza tempesta, non c’è felicità che non abbia attraversato un po’ di buio.
Ho imparato che convivere con i propri opposti non è una condanna, ma una forma di libertà.
Nei tuoi brani la vulnerabilità diventa quasi un superpotere. Ti capita mai di avere paura che la sincerità possa essere fraintesa o diventare una forma di esposizione troppo forte?
Sì, mi capita spesso. Esporsi fa paura, perché significa mostrarsi senza filtri, e accettare che non tutti capiranno. Ma alla fine credo che la verità emotiva sia l’unico linguaggio che valga la pena usare.
Non scrivo per apparire, scrivo per liberarmi. Quando metto in una canzone quello che non riesco a dire a voce, è come se togliessi un peso dal petto.
Chi ha vissuto certe emozioni sa riconoscerle anche senza spiegarle.
La vulnerabilità, per me, non è debolezza: è il coraggio di rimanere umano in un mondo che spesso ti chiede di essere di ferro.
Il tuo percorso, da Fase39 al progetto solista, racconta una continua ricerca di identità. Oggi, cosa rappresenta per te “FASE”? È una rinascita o una metamorfosi ancora in corso?
FASE è una rinascita che non finisce mai. È il mio modo di restare in evoluzione, di non smettere mai di cercarmi.
Dopo i Fase39 ho dovuto ricostruirmi da zero, sia artisticamente che umanamente. È stato un periodo di vuoto, ma anche di verità. Ho dovuto capire chi ero davvero senza quella famiglia artistica alle spalle, e imparare a stare da solo nella mia musica.
FASE non è solo un nome, è un percorso: ogni canzone è una parte di me che cambia, che cresce, che si confronta con la vita. Non credo di essere arrivato a una versione definitiva di me stesso, e forse è proprio questo il senso.
La metamorfosi è ancora in corso, e spero non finisca mai.
La tua musica alterna energia live e introspezione. Quando scrivi, pensi più al momento del palco o a quello dell’ascolto solitario?
Dipende dal momento in cui nascono le canzoni.
All’inizio scrivo in modo impulsivo, lasciando che le parole escano senza filtri. È un flusso emotivo, quasi viscerale, dove non penso al palco ma solo a ciò che devo tirare fuori.
Poi arriva la seconda fase, quella della visione: inizio a immaginare come il brano vivrà dal vivo, il tipo di energia che voglio far arrivare, il suono, la dinamica, l’impatto emotivo sul pubblico.
È un processo circolare: parto da dentro di me e torno indietro attraverso la gente. Quando sono sul palco e sento che quelle parole arrivano, è come se tutto il percorso trovasse finalmente senso.


