Con “Himalaya” il cantautore trasforma la disillusione in un atto di coraggio e verità
Tra sogni infantili e consapevolezza adulta, Revelè racconta nel suo nuovo singolo “Himalaya” il percorso interiore di chi cresce senza smettere di guardare in alto.
Un brano che parla di desideri che cambiano forma, di nostalgia, e di quella vetta invisibile che ognuno porta dentro di sé.
Con una scrittura intima e lucida, l’artista costruisce un ponte tra il bambino che voleva diventare astronauta e l’uomo che oggi sceglie la musica come mezzo per restare connesso alle proprie emozioni più autentiche.
Intervista a Revelè
1. In “Himalaya” racconti il sogno di un bambino che voleva diventare astronauta e la disillusione dell’età adulta. Ti è mai capitato di riconoscerti in quel bambino e se sì, cosa ti ha fatto “atterrare” nella realtà?
Mi riconosco totalmente in quel bambino. Sognava di toccare il cielo, ma col tempo ha capito che i sogni non sempre si realizzano come li immagini, cambiano forma, si adattano alla vita.
Quello che mi ha fatto “atterrare” è stato proprio crescere, rendermi conto che non bisogna smettere di sognare, ma imparare a farlo con i piedi per terra.
La musica, in questo senso, è diventata il mio modo di continuare a guardare in alto, ma restando consapevole di dove sono.
2. Il titolo “Himalaya” evoca una vetta altissima, quasi irraggiungibile. È una metafora del sogno, della fatica o del desiderio di tornare a guardare il mondo con occhi puri?
È un po’ tutto questo. L’Himalaya è la montagna che tutti abbiamo dentro, il punto più alto dei nostri desideri, ma anche il peso delle nostre paure.
Per me rappresenta la fatica di crescere senza perdere la purezza di quello sguardo bambino.
Scalare l’Himalaya significa accettare le ferite, ma anche credere che ogni passo, anche il più difficile, ti avvicina a qualcosa di vero.
3. Nel brano parli di fretta e disincanto, due sensazioni molto contemporanee. Come riesci a bilanciare nella tua musica la nostalgia per l’infanzia e la lucidità dell’età adulta?
Cerco di far convivere entrambe le parti, senza forzarle.
La nostalgia è la mia bussola, la lucidità è il mio passo.
Quando scrivo, mi lascio attraversare da quello che ho vissuto, ma provo anche a guardarlo con la consapevolezza di oggi.
È come se stessi parlando al me stesso di ieri, provando a dirgli che crescere non significa per forza dimenticare, ma imparare a trasformare ciò che eri in qualcosa di nuovo.
4. Il bambino di “Himalaya” sogna di esplorare lo spazio; l’artista, invece, cosa sogna di esplorare oggi dentro o fuori di sé?
Oggi sogno di esplorare le persone. Le loro storie, le loro fragilità, la loro verità.
Credo che la musica serva a creare ponti, non a costruire muri.
Vorrei che chi ascolta le mie canzoni si sentisse parte di qualcosa, come se quella voce parlasse anche di lui.
Dentro di me, invece, continuo a cercare quel bambino: quello che credeva che tutto fosse possibile e che, in fondo, ancora oggi non ha smesso di crederci.


