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Esce su tutte le piattaforme digitali venerdì 8 agosto 2025 il nuovo singolo di Nosylla, alter-ego artistico della cantautrice Adriana Lariccia. “Antartide”, cuore crudo di uno sfogo notturno, sincero, scritto con l’urgenza di chi ancora sente troppo, usa il gelo come metafora di un amore distante ma ancora vivo, protetto dalla freddezza più che distrutto da essa. I riferimenti a Magritte, con i suoi amanti bendati, evocano l’idea di un amore paradossale, cieco, che sfugge alla realtà. L’immaginario glaciale si mescola in un mondo Nouvelle Vague, immaginando la cinematografia di Godard, costruendo un paesaggio interiore dove il dolore è raffinato in poesia. L’amore è malinconica carezza, ma anche difesa, laddove si ama ancora, ma si comprende cosa ci si merita. L’immagine potente del “ghiaccio in bocca che brucia” si lega alla tensione tra passione e indifferenza, richiamando fortemente “Fuoco e Ghiaccio” di Robert Frost, poesia che esplora il tema della fine del mondo, contrapponendo l’idea di un’apocalisse causata proprio da questi due elementi.

 

“Antartide” è un brano denso di immagini potenti e simboliche: come nasce l’idea di usare il gelo come metafora di un amore ancora vivo ma distante?

“Il gelo diventa il simbolo di una distanza emotiva, di una barriera che congela la comunicazione. È come se l’amore fosse ancora acceso, ma soffocato da un clima ostile: un fuoco che resiste dentro una tempesta di ghiaccio. In questo senso, il ghiaccio non rappresenta la fine del sentimento, ma il suo stato di sospensione: l’amore c’è, pulsa, ma non riesce a scaldare davvero l’altro. Nel momento di scrittura mi sono venute in mente molte opere letterarie di ispirazione tra cui la poesia fuoco e ghiaccio di Frost, mi ha da sempre affascinata e ho voluto inserire il cuore del messaggio in questa canzone, che poi è diventato un po’ tutto il mondo su cui girare attorno.”

Hai alle spalle un percorso artistico molto ricco tra musica, poesia, recitazione e psicologia: come convivono tutte queste anime nel progetto Nosylla?

“A volte litigando, a volte abbracciandosi, a volte amandosi. A volte li amo io, a volte li odio io. Diciamo che non è così semplice come si pensa, essere una multi-potenziale ha i suoi lati positivi, ma ha anche quelli negativi. Ho i miei momenti di crisi in cui penso di non essere abbastanza per nessuna di queste cose, mentre così non è. Alla fine non mi riesce mai separare i mondi in compartimenti stagni, ho imparato a lasciar defluire tutto come un fiume in piena e forse solo così mi riesce davvero. Ogni cosa influenza l’altra. Così come gli eventi nella vita si influenzano a vicenda, anche se non ce ne accorgiamo.”

Nel tuo nuovo singolo rievochi la Nouvelle Vague: che ruolo ha il cinema nella tua scrittura musicale e nel costruire l’immaginario delle tue canzoni?

“Il cinema, e in particolare la Nouvelle Vague, entra nella scrittura come un linguaggio parallelo alla musica: fatto di immagini spezzate, suggestioni, frammenti che raccontano più delle parole stesse. La musica diventa come una sequenza cinematografica: non descrive in modo lineare, ma evoca, lascia spazi vuoti che l’ascoltatore deve riempire. Nella Nouvelle Vague c’era l’idea di rompere le regole narrative classiche, di usare la macchina da presa per catturare la vita nella sua imperfezione, con tagli improvvisi e dettagli che sembravano insignificanti ma rivelavano emozioni profonde. Allo stesso modo, nei testi delle canzoni vengono scelti dettagli – un semaforo giallo, una neve che disinfetta, un lunedì odiato – che diventano simboli. Il cinema non è solo un riferimento estetico, ma un modo di guardare il mondo: la canzone non è una cronaca, è un montaggio di immagini che insieme costruiscono un immaginario emotivo, proprio come una pellicola che scorre. Per me la cinematografia non è separata, anche perché quando scrivo immagino ed immagino proprio come sarebbe il copione di quella storia, per cui tutto è vivo.”

Scrivi sia in italiano che in inglese e unisci sonorità pop, indie e pop-punk con influenze anni ’80: come definiresti oggi il tuo stile e cosa rappresenta per te l’ibridazione culturale, anche alla luce delle tue origini salentine e albanesi?

“Il mio stile oggi è un incrocio di linguaggi sonori che non vogliono per forza scegliere una sola direzione: c’è l’immediatezza pop, la malinconia indie, l’energia del pop-punk e quell’estetica anni ’80 che porta con sé un senso di nostalgia luminosa. Non riesco e non voglio definirmi solo con una cosa e non lo farò. Ascolto da sempre sounds diversi e stili diversi tra loro, e questi, in base ai periodi di vita, mi influenzano tutti. Per quanto riguarda le mie origini, è un’ibridazione che riflette la mia identità. Il Salento con le sue radici popolari e ritmiche viscerali e l’Albania, che porta con sé una forza mediterranea ma anche un senso di resistenza e rinascita. Mettere insieme tutto questo significa creare uno spazio dove le culture non si escludono, ma si arricchiscono a vicenda. La mia musica diventa quindi un ponte: tra epoche, generi, e soprattutto tra le mie due anime.”

Nel tuo lavoro la scrittura è spesso una forma di catarsi personale e di dialogo con l’altro: che messaggio speri arrivi a chi ascolta “Antartide”?

“Il messaggio che spero arrivi è che dentro al freddo, dentro al vuoto che a volte ci separa dagli altri, c’è sempre una fiamma che resiste. Non è un invito alla rassegnazione, ma alla consapevolezza: anche quando ci sentiamo congelati, non smettiamo di bruciare. E soprattutto spero che arrivi il messaggio che quella fiamma, molte volte, è solo nostra e non è una proiezione dell’altro. Capirsi, ascoltarci, riconoscere dove si appartiene davvero e non cedere alla paura di perdere qualcosa, perchè molte volte perdiamo noi stessi e ci dimentichiamo cosa realmente meritiamo.” 

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