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Con il suo nuovo doppio rilascio, Morire per te e La pioggia verrà, Matteo Troilo non cerca scorciatoie. In un tempo che consuma rapidamente canzoni usa e getta, lui rilancia la musica come spazio di profondità, gesto resistente, espressione viva e autentica del sé. Un’intervista che non è solo promozione, ma riflessione sul senso stesso del fare musica oggi, sull’importanza del tempo, sull’immaginazione e sull’imperfezione come segni di verità.


“Morire per te” è il brano a cui tieni di più e dura oltre sette minuti: è quasi un atto di resistenza contro la velocità e l’immediatezza dell’ascolto contemporaneo. Che tipo di libertà hai voluto difendere con questa scelta?

La libertà di esprimersi senza restrizioni, limiti, confini predeterminati. Anche se a dire il vero non è stata una scelta decisa a priori. Semplicemente ha preso forma così. Quello era lo spazio necessario per esprimersi, ed è stato tutto abbastanza naturale. Non ho fatto caso alla lunghezza in un primo momento, solo successivamente alla composizione mi sono accorto della durata, e quasi non ci credevo. Ma l’ho voluta comunque lasciare così, perché non poteva esistere che in quel modo. Non esisteva un modo diverso per suonarla, sentirla, viverla.

Non è quindi una scelta volontaria. È un’esigenza. È un atto di resistenza, sì, ma non voluto, non scelto. È obbligato intimamente. Ed è stato quindi obbligatorio sceglierlo… La canzone è come il blocco di marmo per lo scultore. L’opera, la scultura, esiste già dentro il marmo, devi solo farla emergere, tirarla fuori. La canzone è la stessa cosa: esiste già da qualche parte nell’Universo, nel tuo universo. Tu non devi far altro che farla venire fuori, “scolpirla” e scoprirla, con gli strumenti, le parole e le note giuste.

Se si dicesse ad uno scultore che da oggi le sue opere dovranno essere tutte di dimensione massima, che ne so, di 750 cm3, come una bottiglia di vino? Il pittore sceglie la tela in funzione di ciò che vuole esprimere, di ciò che vuole disegnare, non del possibile “spazio espositivo”. Immaginiamo se Picasso avesse dovuto realizzare Guernica su un foglio A4…

Nei concorsi musicali viene fatta sempre più attenzione alla durata massima dei brani. Solo ancora pochi anni fa veniva chiesto non più di 5’00” minuti per un brano. Oggi si è passati in alcuni casi addirittura a 3’00” minuti. Se da una parte posso capire le esigenze sia organizzative, di un concorso, che “discografiche”, dall’altra credo che questo possa rappresentare un limite alla libertà creativa.

Se tutte le canzoni oggi seguissero questi parametri, ci priveremmo della bellezza di geni creativi che hanno fatto la storia della musica. Cosa ne sarebbe ad esempio dei Pink Floyd e di “Shine On You Crazy Diamond” (del resto questo e altri brani non si sentono praticamente più alla radio…).

Sia nei contenuti che nella forma, l’arte educa ai sentimenti e alla libertà. Voler circoscriverli in parametri e limiti standardizzati è un controsenso. Per questo l’arte, in particolare la musica, chi la promuove e chi la crea, ha una profonda responsabilità nei confronti delle nuove generazioni.

Così da un po’ di anni, e non solo per questo aspetto, vivo molti concorsi (non tutti per fortuna) come una cartina di tornasole del mio percorso artistico: finché non vinco nulla o non passo le selezioni, allora vuol dire che sono sulla giusta strada… 😉

Ancora oggi, ad esempio anche nelle serate con una chitarra tra amici, si continuano a cantare canzoni di 60-70 anni fa. In un mondo sempre più consumistico alla “usa e getta”, in cui anche la musica subisce l’usa e getta, o meglio “ascolta e getta”, funzionale al momento, alla stagione, al mercato, quante delle canzoni che sentiamo oggi saranno cantate ancora tra 60-70 anni? Si suonerà ancora la chitarra tra amici..?

Senza aspettare così a lungo, quante canzoni di oggi si canteranno solo l’anno prossimo…? Così, per dire…

Nel descrivere “La pioggia verrà” parli di un testo che cambia senso in base alla punteggiatura. Quanto è importante per te lasciare che la parola scritta resti aperta, fluida, interpretabile?

In genere quando scrivi una canzone, lo fai per te stesso, non per chi ascolta. È una tua esigenza intima, profonda. Te ne freghi di chi la ascolterà, di cosa penserà, se piacerà o meno. O almeno dovrebbe essere così. Di sicuro lo è per me. Solo dopo, forse, pensi alla possibile platea di ascoltatori, ma nell’immediatezza dell’atto creativo no. Questo si lega un po’ con i concetti precedenti, cioè che sempre più spesso si confezionano canzoni in funzione del mercato degli ascoltatori.

Quindi ogni canzone che scrivo è un significante profondo, intimo, di me stesso, del mio pensiero. La stessa cosa succede per chi vive una canzone dalla riva opposta del fiume, cioè per chi ascolta. Prende significato in funzione di ciò che ha vissuto o che sta vivendo, della sua sensibilità, della banda di frequenza comunicativa e ricettiva su cui si trova in quel momento. Quindi ogni canzone parla in modo diverso a ciascuno di noi, trasformandosi, non rimanendo più di chi l’ha scritta, ma diventando di chiunque la ascolti, assumendone altrettanti significati.

Per questo spesso a spiegare troppo una canzone si rischia di distruggerla, di sbriciolare in poche parole l’ideale romantico che ha evocato o che potrebbe evocare. Pensa a quello che, anche solo provocatoriamente, Gino Paoli disse de “Il Cielo in una Stanza”.

Il contrasto tra amore poetico e amore bestiale è un tema ricorrente in molte canzoni, ma tu lo affronti con un’intensità quasi fisica. È una scrittura che nasce più dall’esperienza vissuta o dall’immaginazione?

Entrambe. Alcune mie canzoni raccontano un vissuto reale, vero, concreto. Altre nascono sempre da un vissuto, che però poi si fa spazio nella mia fantasia, diventando una sequenza di fotogrammi che trasportano nel fluire narrativo di una storia a cui do libero sfogo.

Non ti dirò mai però a quale dei due casi citati si riferisca questa canzone… 😉

“Nati per vivere” sembra un progetto che nasce anche per restare, per durare nel tempo. Che idea di “durata” hai della musica oggi, in un’epoca che consuma e dimentica così in fretta?

Nati Per Vivere nasce dall’esigenza di cristallizzare, dare una forma definitiva ad alcune canzoni scritte in diversi momenti del mio percorso, che erano in qualche modo legate dal sottile filo rosso della vita, il suo mistero, la sua potenza e la sua bellezza, nonostante gli alti e i bassi, le intime morti solitarie e le sue continue rinascite quotidiane.

Quando avevo 18 anni circa, sono stato travolto da un’improvvisa energia e gioia vitale che da allora, nonostante tutti i suoi alti e bassi, non mi ha mai lasciato. Così, in qualche modo, questo disco vuole essere un tentativo per rendere “eterno” questo sentimento. Chissà se tra cento, duecento o quanti più anni, qualcuno troverà questo disco, magari lo ascolterà, se gli parlerà allo stesso modo… chissà COME ascolteremo la musica in quel tempo, QUALE musica ascolteremo.

Per me, per il mio modo di scrivere e di comporre, è fondamentale poi il rapporto fisico con lo strumento musicale. Devo toccarlo, imbracciarlo, sentire le sue vibrazioni, come fosse un’estensione fisica di me e della mia creatività.

Fabrizio De André in un suo verso diceva “pensavo: è bello che dove finiscono le mie dita, debba in qualche modo incominciare una chitarra”. Oggi forse potrebbe suonare più così: “pensavo: è bello che dove finiscono le mie dita, debba in qualche modo incominciare un mouse… o un pad…”, ecco. Dove finiranno le nostre dita tra 100, 1000 anni…? Qualcuno si ricorderà ancora di cos’era una chitarra? Che strumenti avremo?

Ammetto che oggi io faccio fatica nel riuscire a riconoscere come “strumenti musicali” molti strumenti tecnologici informatici digitali, come banalmente il pc, pad o altri. Sono cresciuto in un ambiente “analogico” e non mi è facile staccarmi da quella dimensione quando si parla di musica e di strumenti musicali.

Nel mio disco ci sono strumenti veri, persone vere. Con la loro sensibilità e il loro stile musicale. Il disco è tutto interamente suonato. Solo in due brani, Agosto Afoso e Una Notte d’Inverno, sono stati usati degli archi campionati, in aggiunta a quelli reali, per dare più corpo ed ampiezza agli archi registrati in studio con strumenti e musicisti veri, reali, autentici.

Ecco, io credo che l’ingrediente fondamentale perché una musica, una canzone, possa durare, sia l’autenticità. Sia dal punto di vista fisico che intellettuale. Non seguire le mode del momento ma essere autentici, sinceri, veri, in quello che esprimi e in come lo esprimi. Far uscire la propria anima, il proprio sentire, ciò che sei insomma. Così sarai credibile. La tua musica deve rappresentare ciò che sei. Questo crea unicità e ti guida nel cercare la tua strada per distinguerti da un’omologazione divorante.

Se sei finto, la tua musica sarà finta. E non potrà durare.

Nel mio disco non ho usato accordatori vocali, e alcune canzoni, come la versione in solo acustico voce e chitarra di Cosa Resta (un personale omaggio a Piero Ciampi), sono state lasciate apposta nella loro versione più cruda, nuda e pura, di registrazione in presa diretta, anche con le loro imperfezioni, perché volevo esprimere il senso di realtà e verità racchiuso e vissuto in quelle canzoni e in quei versi.

Può piacere o meno. Ma questa è stata la scelta. Credo che si debba lasciare spazio alla leggera imperfezione come valore di unicà e di distinguibilità. Altrimenti non sarà più possibile riconoscere la bellezza di una Callas o di un Pavarotti, dai vicini del piano di sopra.

Questo è quello che ho provato a fare con questo disco: metterci ciò che sono. Spero di esserci riuscito…

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