Cambia pelle ma non sostanza Dirlinger, che dopo due anni di singoli, concerti e un EP mette ordine nei suoi racconti e pubblica il suo primo album di inediti.
Otto brani per raccontare il presente, tra disillusione e speranze clandestine, tra storie di provincia e storie dal mondo. Dai sogni infranti di un bambino palestinese in Shalom alle inquietudini di chi si sente bloccato in un’eterna attesa in Oggi come ieri, passando per la fragile rivincita di Mafalda – primo singolo estratto dall’album – Dirlinger si conferma artigiano di canzoni e narratore del suo tempo.
Un disco autoprodotto, inciso con cura, che mescola canzone d’autore italiana, folk americano e una scrittura che non teme il confronto con la realtà.
In Cemento e Preghiera miscredente usi immagini forti, talvolta amare. Cosa ti dà la spinta per affrontare questi temi senza arrenderti al disincanto?
In Cemento l’amarezza, che sconfina anche in rabbia, è rivolta a sistemi complessi e interconnessi. Le nuove generazioni possono provare disprezzo sia verso chi ha guadagnato dalla speculazione edilizia, sia verso chi non l’ha contrastata con la necessaria veemenza. Il senso di impotenza verso una politica che non fa abbastanza lascia spazio allo sconforto.
In Preghiera miscredente, se ci si riesce a connettere con un’entità superiore svestita da sovrastrutture religiose, il rapporto diventa uno-a-uno. Alla fine, il protagonista si stanca di cercare Dio e lo sostituisce con un altro credo – politico, artistico, sociale o individuale.
Shalom è forse il brano più esplicitamente politico. Che responsabilità ha oggi un cantautore nel suo ruolo pubblico?
In tutto ciò che parla di società e relazioni interpersonali c’è una responsabilità politica. Anche cantare d’amore può essere un atto politico. Non sono gli uomini a parlare di politica, è la politica a parlare degli uomini e delle loro vite.
Siamo figli del trionfo del disimpegno politico, ma qualcosa si sta muovendo, soprattutto tra i più giovani. Bisogna tornare a concepire la politica come qualcosa di comune, non come affare per pochi. E la canzone, parafrasando Lucrezio, può essere il dolcificante per la pillola amara delle ingiustizie quotidiane.
Tra la provincia di Oggi come ieri e la voglia di confronto, ti senti più dentro una comfort zone o in fuga verso il diverso?
Mi sembra di fuggire più che altro da me stesso. Nell’incontro col diverso finisco spesso per ritrovarmi. È un bene, se si parla di coerenza artistica; ma può diventare una condanna, se si pensa che bisogna imparare a voler bene anche ai propri difetti, in senso creativo.
Produzione, scrittura, conduzione radiofonica: cosa hai imparato sull’arte di comunicare? Hai trovato una tua dimensione?
Due cose mi hanno aiutato: sapere che chi ti ascolta si aspetta che tu parli proprio a lui, anche quando racconti qualcosa di molto personale; e ricordarmi che il pubblico è in parte specchio di ciò che porti sul palco. Se sei annoiato o frustrato, riceverai la stessa energia. Ma se sali con l’intento di comunicare davvero, allora ne uscirai arricchito, insieme a chi ti ha ascoltato.
Cosa speri resti a chi ascolta questo disco? Una domanda, un’immagine, una melodia?
In un’epoca che lascia poco spazio all’introspezione, credo che lasciare un dubbio sia già una vittoria. Se poi quel dubbio si porta dietro anche una melodia da canticchiare, tanto meglio.