Tutto questo nasce dalla provincia. O almeno, ci piace pensarlo così. Probabilmente lo abbiamo letto sottotraccia, e ora diviene manifesto di un ascolto davvero immersivo e nudo. Violento di verità, corrosivo e accomodante, ma anche decisamente distopico.
Alessandro Mogni, in arte A Quiet Guy, ha già sperimentato la musica accostandola alla lettura di testi letterari. Con il suo album Corpi Estranei, riprende queste e altre intenzioni, raccoglie suggestioni e mescola influenze per dare vita a un lavoro che è un’apologia del sentire: sospeso, visionario, psichedelico. Al centro di tutto, la chitarra elettrica e i suoi riverberi.
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Un esordio oggi… cosa ti ha spinto, quale urgenza, quale necessità?
Ho suonato per più di dieci anni in una band per la quale scrivevo musica e testi. Quando quell’esperienza si è conclusa, ho avuto la necessità di staccare e dedicarmi ad altro. È stato un periodo di ascolti intensi, non solo musicali ma anche cinematografici e letterari.
Poi ho ripreso in mano la chitarra, ma con un approccio diverso: suonare canzoni di altri, sperimentando suoni differenti dagli originali e notando come ciò cambiasse la percezione del brano. Da lì, attraverso queste nuove sonorità, ho iniziato a scrivere le bozze di Corpi Estranei.
Un suono apocalittico… una sorta di fotografia sociale?
Non era quella l’intenzione primaria, non ho scritto con un pensiero rivolto alla società nel suo complesso. Tuttavia, considerando i tempi in cui viviamo, una lettura in questa chiave è comprensibile. I brani nascono da qualcosa di più personale, con una visione esistenzialista, ma è inevitabile che il contesto sociale influisca sulle nostre percezioni.
Siamo tutti “corpi estranei” oggi?
Sì, assolutamente. Il problema delle masse è che sono composte da individui completamente estranei tra loro. È il concetto di atomizzazione sociale, che oggi è più evidente che mai. Il disco nasce dalla necessità di comunicare sensazioni personali, e il titolo riflette proprio questo: la sensazione di estraneità, che può colpire anche persone fisicamente vicine, o persino noi stessi.
Quanto ha influito la provincia nella scrittura di questo disco?
Credo tantissimo. L’ambiente che ci circonda influenza profondamente il nostro modo di creare. Se avessi vissuto in città, probabilmente avrei sviluppato altre sonorità e ritmiche. In letteratura si parla di “scrittori di pianura” e “scrittori di montagna”; credo che questo concetto possa estendersi anche alla musica, tra chi vive la provincia e chi vive la città.
Un disco così cinematico, eppure senza video. Come mai?
L’idea del disco è quella di essere una colonna sonora per immagini che mi hanno ispirato. Ogni brano ha l’indicazione della stagione e dell’episodio, come in una serie TV. Però ho voluto dare la priorità al suono, senza sentire la necessità di pubblicare un video solo a scopo promozionale. Se in futuro troverò qualcuno interessato a sviluppare un progetto visivo coerente con il disco, allora ci penserò.
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