La musica è fatta di momenti, di incontri e di attese. Ci sono brani che nascono per essere pubblicati subito e altri che aspettano il momento giusto per trovare la loro strada. “Pop Pain” è una di queste canzoni: un pezzo che ha preso forma nel tempo, attraverso jam session, sperimentazioni e connessioni musicali nate quasi per caso.
In questa intervista, esploriamo il percorso dell’artista dietro “Pop Pain”, tra collaborazioni significative, ispirazioni e il sogno mai realizzato di un incontro con Lucio Battisti.
“Pop Pain” è un brano che ha atteso anni prima di vedere la luce. Se potessi tornare indietro nel tempo e farlo uscire subito, lo faresti? O pensi che ogni canzone abbia il suo momento giusto?
Quando il brano fu registrato si trattava solo di una jam session, raffinata nel tempo fino a una forma definita. Era un esercizio musicale nato dal piacere di suonare liberamente, con una chitarra semiacustica e una batteria, in una taverna di Garbagnate, in provincia di Milano.
All’epoca pubblicarlo era impensabile: l’industria discografica aveva regole rigide e bisognava passare attraverso i suoi meccanismi. Ma, in fondo, per noi era solo puro divertimento. Oggi sono convinto che una canzone sa più cose di chi l’ha scritta e trova da sola il suo momento per emergere, quando è matura per affrontare il mondo.
Nel tuo percorso musicale hai attraversato molte fasi e collaborato con artisti diversi. Qual è stata la collaborazione che ti ha segnato di più e perché?
Ogni persona con cui ho suonato e scritto è stata un tassello del mio percorso. Ho sempre cercato di mantenere un’identità artistica autentica, senza piegarmi alle mode del momento. Questo ha reso il cammino più difficile, perché spesso ho dovuto ricostruire da zero, affrontando cambiamenti e difficoltà.
Nonostante le sfide, ci sono state collaborazioni preziose, momenti che restano impressi e che si possono ritrovare nei miei dischi. Tra le tante esperienze, alcune “rose” sono riuscite a sbocciare anche tra le spine.
La tua musica ha sempre avuto un’anima sperimentale e riflessiva. Se dovessi descrivere “Pop Pain” con un’immagine o una scena cinematografica, quale sarebbe?
Immagino la fine di un piccolo concerto o di una registrazione in studio. L’ultima volta, perché tutto si è disgregato. La notte che avanza mentre cammino da solo, con la mia chitarra e la sua custodia stretta come fosse parte di me. Domani sarà un altro giorno, forse con una nuova musica, su un orizzonte diverso.
Hai menzionato l’influenza di Lucio Battisti. Se potessi fargli ascoltare un tuo brano e parlarci di musica per un’ora, cosa gli chiederesti?
Sarebbe stato un sogno incontrarlo, ma purtroppo non è accaduto. Ho però avuto la fortuna di conoscere due persone che gli sono state vicine nei primi anni della sua carriera.
Il primo è Alberto Radius, chitarrista straordinario, che ho frequentato fin da ragazzino. Gli ho fatto ascoltare molte mie composizioni nel tempo: è stato accogliente ma rigoroso, alternando incoraggiamento e critica costruttiva. Ho anche registrato nel suo ex studio a Milano, oggi gestito da un altro musicista appassionato.
Il secondo è Matano, il primo scopritore di Battisti. Con lui ho avuto modo di scambiare qualche parola nello studio di suo figlio, in provincia di Bergamo, dove ho registrato le parti vocali di uno degli ultimi album.
A Battisti potrei dire solo una cosa: grazie. Grazie per essere stato un artista autentico, originale e con la schiena dritta.