Un vinile questa volta, perché la dimensione fisica del vinile è ormai tornata a essere una norma nelle nostre abitudini. Quella di Gianluca Lo Presi, in arte Nevica, è una ricerca di suono e di forma con “Distopie”, un EP fluttuante attorno al concetto di futuro, di visioni future… e le sue sono nichiliste, timorose, rabbiose e, in qualche misura, dense di resilienza.
Composizioni strumentali che ridefiniscono il ruolo del basso, attorno alle quali si posano poche parole, scelte con cura, simili a pensieri distesi come istinti ragionati.
Visioni così buie e distopiche… da dove nascono? Quanto dolore o rabbia ci vuole di dentro per un simile suono?
Grazie per questa bellissima domanda, innanzitutto. Dolore e rabbia sono, per quanto mi riguarda, un carburante che mi spinge a scrivere musica. L’importante è trasformare queste emozioni in un senso di riscatto positivo verso il mondo. Questo disco nasce nel periodo post-Covid da una presa di coscienza verso un mondo che non vuole avere un futuro migliore.
Come nella caverna di Platone, la maggior parte della gente si accontenta delle “ombre riflesse” perché danno un senso di abitudine, di zona confortevole. Un mondo così è proiettato a implodere su se stesso, senza futuro o con un futuro terribile.
Tutto questo lo rilasci in vinile… che responsabilità porta con sé questo gesto?
È la prima volta nella mia carriera di musicista che pubblico in vinile. Paradossalmente, il vinile lo vivo simbolicamente come una reliquia proiettata verso il futuro, una memoria storica di questa analisi messa in musica sulla condizione umana. Il vinile porta con sé anche il recupero del passato e fa da ponte tra passato, presente e futuro.
Un EP che porta i germi seminali di un disco? Di salvezza o di definitiva sconfitta?
Paradossalmente, c’è sempre un desiderio di salvezza nella mia musica. L’essere umano dispone del libero arbitrio, per cui può scegliere se distruggere il proprio futuro o costruirselo migliore. L’autoconsapevolezza è la nostra salvezza. Anche se è praticata da una minoranza, rimane sempre un seme che può diffondersi sempre di più.
Le poesie, le liriche… gli Haiku… perché questa scelta?
I testi brevi volevo fossero un preludio a un lavoro successivo più completo. Mi interessava dare un messaggio sintetico, poche parole ma incisive. Destare l’attenzione anche per pochi attimi. Poi, una persona, se ha un seme dentro, piano piano se lo va a innaffiare da sola.
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E dunque la voce che ruolo ha?
Mi sento un messaggero, non un cantante nel senso stretto. Canto solo cose che mi escono da dentro, che mi appartengono. La mia voce non è uno strumento solista, ma parte dell’insieme, senza nessuna velleità di protagonismo.
Dentro “Distopie” hai avuto modo di trovare nuove forme da dare al suono di basso? Hai sperimentato?
Sì, moltissimo. Il disco è nato anche per questo desiderio di spingere il basso oltre le sue sonorità abituali, quasi a farlo diventare un sintetizzatore in certi casi. Mi piace sempre allargare gli orizzonti sonori di uno strumento, sempre in base alle mie possibilità. La musica sperimentale è un genere dove non serve avere tecnica sullo strumento, ma ci vuole molta fantasia per creare sonorità o effetti che diventano essi stessi esecuzione musicale.
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