Eccolo “Immagini rubate” il nuovo singolo di Melania Camardella in arte YAYA. Giovanissima e decisamente “americana” se consideriamo quei toni davvero minima e underground, un poco alla Vic Chesnutt, un poco alla Kevin Morby… un poco tanto invece deve anche a stilemi ormai classici del fare indie d’autore in Italia. Ripensando al passato, ripensando a chi siamo ora, a quanto tempo perso… e chissà se in fondo nulla è andato perso, chissà se ogni cosa è servita alla costruzione di oggi.
Scrivere canzoni oggi…? Per te che significa?
Scrivere canzoni è un atto di resistenza. Oggi, in un mondo dove tutto è immediato e superficiale, scrivere è il mio modo di rimanere connessa a ciò che è reale. È una ricerca continua di qualcosa di più profondo, di più vero. Non è facile, ma è necessario. Non potrei fare altro. Per me, è l’unico modo per non perdere la strada.
E poi puntare molto se non tutto sull’emozione… oggi manca questo modo di vivere? L’emozione si sta tralasciando in luogo delle macchine?
Sì, lo penso spesso. Siamo circondati da macchine, da algoritmi che cercano di prevedere tutto, anche le emozioni. Ma l’emozione vera è imprevedibile, è disordinata, ed è lì che trovi la vita. Siamo sempre più abituati a filtrare ciò che sentiamo, a metterlo in categorie o a scorrere via tutto ciò che ci scomoda. Puntare sull’emozione oggi è un atto rivoluzionario, perché significa restare vulnerabili in un mondo che ti spinge a essere sempre controllato, sempre programmato. E credo che molti lo stiano dimenticando. Le macchine non possono sentire come sentiamo noi, non possono creare arte dal caos interiore. Sta a noi non dimenticare come fare.
Parli di un amore che si rivela diverso… persone che si conoscono solo alla fine… ma questo secondo te accade per quale ragione?
Forse perché, spesso, ci presentiamo agli altri con maschere, non per ingannare, ma per paura di essere visti davvero. E così costruiamo relazioni basate su illusioni, su quello che vogliamo essere o che pensiamo di dover essere. Ma alla fine, la verità viene sempre fuori. È come una rivelazione lenta, dolorosa a volte, ma necessaria. Le persone si conoscono solo alla fine perché ci vuole coraggio per abbattere quei muri. E molte volte, solo quando è troppo tardi ci accorgiamo di non aver conosciuto davvero l’altro, o forse nemmeno noi stessi.
Dalla copertina di questo brano ritrovo molto il colore di questa canzone. Bianco e nero protagonisti. Perché?
Il bianco e nero è la rappresentazione perfetta della dualità. La vita è fatta di contrasti, di luci e ombre, e il bianco e nero lo cattura in modo puro. Non c’è distrazione nei colori, tutto diventa essenziale. La canzone riflette questa tensione tra opposti, tra il chiaro e lo scuro, tra ciò che è detto e ciò che resta nascosto.
Un disco, una pubblicazione: ti lascia emancipare un dolore o una mancanza oppure è solo un esercizio di distrazione e di stile?
È una liberazione, ma non nel senso di dimenticare. È un modo per dare una forma al dolore, per trasformarlo in qualcosa di esterno a me. Ogni canzone è un pezzo di quel peso che riesco a mettere fuori, a far diventare musica. Non è solo stile o distrazione, è un processo di catarsi, un modo per rendere il dolore sopportabile, condivisibile.