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Lo conosciamo Bruno Genèro, conosciamo il suo mondo di percussioni dentro cui è maestro. Incontra qui il suono digitale di Alain Diamond per un disco ambizioso e universale come “Ekùn” disponibile anche in una bella release in doppio vinile. L’Africa come collante di una trama di viaggio e di emancipazione. Il suono che mostra e racconta… questo è sicuramente un disco che si deve guardare più che ascoltare.

La percussione diciamo classica incontra il futuro del suono digitale. Non è la prima volta immagino…ogni volta è una scoperta o una conferma?

Il linguaggio percussivo usato in questo album, direi sia più ‘pop’ che classico. Il tamburo che suono (djembe) in Africa viene dalla strada, si usa generalmente per accompagnare feste popolari e riti di iniziazione. Già negli album precedenti avevo usato l’elettronica come contaminazione, ma in ‘Ekùn’ è stata una vera e propria scoperta, perché partendo dal groove, elemento che accomuna tamburo e techno-dance-house, mi sono immerso totalmente nel suono digitale. Questi due mondi musicali apparentemente diversi, in realtà nascono entrambi per far ballare. In tutte le culture l’esigenza di esprimersi attraverso il corpo è di vitale importanza; in Occidente è la ricerca di uno stato di benessere o forma di comunicazione, in Africa la danza diventa espressione e meditazione del corpo.

Che poi a tutto questo futuro rispondi con la produzione di un vinile…che rapporto hai con questo supporto?

Ho iniziato a fare musica con i suoni analogici e i vinili. Al di là delle mode o richieste commerciali, trovo questo oggetto un simbolo che racconta una parte di me. Ero ancora adolescente quando affiancavo allo studio della musica la passione da deejay, usando i vinili durante le serate in discoteca. Ancora oggi ne posseggo una discreta collezione.

Penso che la musica sia come un ‘portale’ a cui il musicista, secondo la propria sensibilità, consapevolezza e talento, può attingere attraverso suoni e frequenze, ricreando atmosfere senza tempo. Essendo questo un album autobiografico, nel descrivere le esperienze vissute in 3 continenti (Africa, Europa, Nord America e Caraibi), mi sono ritrovato a fare un tuffo nell’ignoto, dove Passato, Presente e Futuro sono diventati un tutt’uno. Penso che il vinile, più di tutti gli altri supporti, sia l’oggetto che maggiormente rappresenti questa chiave di lettura.

Vorrei ringraziare tutti i professionisti che mi hanno permesso di realizzare un prodotto di così alta qualità, fra tutti Fabrizio Argiolas, il mio storico ingegnere del suono, lo straordinario Maurizio Biancani di Fonoprint, che ha realizzato magistralmente il mastering, per finire con la lacca prodotta dall’ing. Roberto Barbolini, icona del settore. ‘Ekùn’ è un doppio vinile da 180 grammi, ogni traccia è integrale. Per me è stato importante mantenere intatta la musica e curare la veste grafica e sono molto soddisfatto del risultato ottenuto. Spero piacerà anche a voi.

“Ekùn” sembra anche molto un’allegoria di vita… un fantasy… ha anche questa dimensione?

Suonare, in inglese si dice “to play”, in francese “jouer”, in malinke “afö”. Quando suono, per me è come giocare, devo divertirmi, provare piacere, entrare in uno stato di leggerezza…solo così riesco a trasmettere emozioni. Il tamburo è legato alla fisicità, l’interprete diventa un tutt’uno con lo strumento e il suono del legno istintivamente riporta alla terra, così un tronco scavato e una pelle animale sono il mezzo per esprimere la gioia di vivere. 

Il fantasy mi ha sempre affascinato e stimolato l’immaginazione, riportandomi alle tante avventure vissute in terre lontane. Mi sono ritrovato sovente a vivere situazioni talmente distanti dal nostro concetto di vita da sfiorare il ‘paranormale’, come foreste sacre, storie di jinn (spiriti sovrumani), mercati dei feticci, esseri umani convinti di potersi trasformare in animali, altri posseduti da divinità antiche e ancestrali, tutto con naturalezza disarmante. Il connubio con l’elettronica ha reso possibile ricreare quelle atmosfere, rendendo ‘Ekùn’ un album leggero nella forma e profondo nella sostanza.

Nel dialogo con Alain Diamond: chi ha contaminato chi? Chi si è avvicinato all’altro? E in che modo?

Con Alain c’è stato subito feeling, lui è un dj producer mulatto figlio d’arte, diplomato al Conservatorio in pianoforte, di origine italo-gabonese, che non ha mai messo piede in Africa. Io un percussionista djembefolà piemontese, che ha vissuto trent’anni in terra africana. Sono arrivato in studio da lui nel 2019 con la valigia piena di esperienze vissute, cercando una ‘nuova veste’. Alain è stato sin da subito disponibile ad ascoltarmi, ed è riuscito con intelligenza e sensibilità a leggermi dentro. Nella composizione dell’album ho voluto far emergere il suo lato neoclassico, affinché si fondesse con le ritmiche e le poliritmie che fanno parte del mio stile, arricchendo questa musica con l’elemento melodico. Il lavoro è stato totalmente complementare, insieme abbiamo cercato i suoni digitali per ricreare quelle atmosfere necessarie a raccontare in musica le mie avventure vissute.

Provengo dalla tradizione africana dove i suoni analogici si trasmettono oralmente, ma la realizzazione di “Ekùn” mi ha ispirato ad avvicinarmi a un mondo diverso. Questa esperienza è stata importante, perché mi ha fatto evolvere nella composizione musicale attraverso frequenze elettroniche, proiettandomi nella nuova forma in cui ora mi identifico totalmente. È stato bello creare un’alchimia sonora fra questi due mondi.

Dal vivo che suono intendi riportare? In che modo suonerà questo disco?

I brani dell’album hanno una durata media di 6 minuti, una scelta non convenzionale, forse poco commerciale, ma finalizzata al racconto delle varie storie, anche nella forma. Così, nel LIVE che sto preparando, il pubblico avrà il tempo necessario per entrare in quelle atmosfere, valorizzate dall’utilizzo di una tecnica di ‘sound immersivo’, dove il tamburo suonerà come se fosse una voce solista. Non potrà mancare l’elemento danza, che accomuna la tradizione africana al pop. Con le immagini multimediali, infine, questo sarà uno spettacolo leggero nella struttura, ma efficace nel risultato. Per la prima volta mi troverò a fare un concerto senza altri musicisti sul palco, suonando il mio tamburo sulle composizioni realizzate in studio, lasciandomi sempre un margine di improvvisazione. Una scelta anomala per lo strumento che suono, proveniente da una musica che non è scandita “dall’orologio, ma dal tempo”.

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