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“Statue di cera” è il singolo che anticipa il nuovo lavoro di Ambradea, una produzione di pop elegante e sofisticato che non mancherà di sorprendere. Per capire meglio il personaggio e la sua musica, le abbiamo rivolto qualche domanda.

https://open.spotify.com/intl-it/track/4rRQQcBM6wdhDgh00g3tEU?si=d974ecc7cd0e4253

Ciao, raccontaci qualcosa di te

Sono un’artista semplice, voglio il meglio.

Sono nata con una predisposizione all’arte, ma con un piccolo difetto, l’inconsapevolezza latente. Ho iniziato con il teatro, la prima forma d’arte che mi ha salvato la vita molto presto, verso gli 11 anni. Da lì mi sono letteralmente sdoppiata e usavo il palco per esprimere tutto ciò che nella vita reale rimaneva bloccato. Ero una bambina piuttosto smarrita, ma con grandi ambizioni. Questo non è mai cambiato. Poi sono arrivati il pianoforte, il disegno, la danza. E all’ultimo, il canto. E la consapevolezza, finalmente. Ho dovuto lottare molto, in primis con me stessa, per dare spazio a quella voce interiore che si insinuava tra i miei pensieri e che per fortuna ha vinto. Fuori rimango sempre una persona riservata, ma dentro di me faccio pazzie, che inevitabilmente finiscono nella mia musica, nella mia immagine e sul palco. Mi sento complessa, mi piace essere criptica, magnetica e provocatoria quel tanto che basta per stuzzicare interesse nel saperne di più. Esibizionista sul filo, animo ribelle, creativa per vocazione. Come dicevo, sono un’artista semplice, voglio il meglio.

 

Come nasce il tuo nuovo singolo, “Statue di cera”?

Volevo scrivere una sorta di ninna nanna, un qualcosa che mi ricordasse suoni bambineschi, di carillon, di cantilena con voce da filastrocca, ma con un tocco di magnetismo e inquietudine di fondo. Mi piacciono i contrasti, mi piace amalgamare un testo crudo su una musica dolce e viceversa, trovo che i contrasti in generale vadano a smuovere qualcosa di più profondo all’interno dell’animo umano, un qualcosa che non riconosciamo subito, non sentiamo familiare, che spesso respingiamo, ma che ci appartiene. Avevo bisogno di scrivere su cose del passato che avevo lasciato irrisolte e volevo farlo attraverso gli occhi e le sensazioni di una bambina. È comunque una storia a lieto fine in cui sottolineo che esisto su questa terra, e non c’è niente di più bello nello scoprirlo. E soprattutto è una dedica a coloro che hanno vissuto con me quei momenti, le mie sorelle.

 

 

Come hai gestito la transizione dalla lingua inglese all’italiano nella tua musica?

Non ero abituata ad esprimermi, in generale. Con l’inglese è stato più facile all’inizio perché creava una specie di maschera su ciò che scrivevo. Diciamo che lo ho usato inconsciamente un pò come schermo. Mi sentivo più al sicuro i primi tempi. Inoltre, le influenze musicali in famiglia sono state per gran parte estere, quindi mi è venuto naturale. Poi le cose sono cambiate col tempo ed ho sentito l’esigenza di essere diretta, di usare l’italiano. Ho superato delle mie barriere personali ed ho cominciato a mettere allo scoperto ciò che avevo veramente da dire. Continuo comunque a scrivere anche in inglese, in parallelo, perché ammetto che su certe cose mi permette di sperimentare un po’ più a fondo certi suoni e certi contesti.

 

Qual è la tua canzone preferita di tutti i tempi e perché?

Non credo che, in particolare per chi fa musica, ci possa essere una risposta in assoluto per questa domanda. Sarebbe come chiedere ad un pittore quale sia il suo quadro preferito. La mia canzone preferita varia a seconda del mood, del momento, della situazione. Ne potrei citare “una delle” che abbiano la stessa componente universale, ovvero ti lasciano la scia, ti toccano, ti distruggono, ti danno un bello schiaffone e se ne vanno, ti sciolgono. E ti lasciano lì, stordito, carico o a pezzi. Come, per esempio, Cry Baby di Janis Joplin, una delle artiste che amo di più e che ascolto quando ho bisogno di esaltare uno sfogo emotivo.

 

Come scegli i collaboratori musicali con cui lavorare?

Devono avere una forte componente umana prima di tutto. Avere cuore, amore per l’arte e la musica. Sembra una frase scontata ma non lo è. Devono essere carismatici. Devono avere spirito di squadra e non lavorare solo per il proprio interesse. La cosa fondamentale è che il progetto piaccia loro, che amino lavorarci su e sperimentare, che portino idee e che partecipino attivamente. Mi piacciono le persone che si mettono in gioco, che non prevaricano sugli altri, quelli che sanno stare al loro posto ma che siano propositivi. Quelli bravi, insomma.

 

Cosa ti spinge a continuare a fare musica nonostante le sfide nel settore?

È una necessità prima di tutto. In più sono ambiziosa, sono curiosa e amo le sfide. Amo la ricerca continua e adoro l’arte. Ci ho dedicato gran parte della mia vita ed è stato sempre un qualcosa in divenire. Credo che un artista non debba fare musica principalmente per farla piacere agli altri, si perderebbe il motivo per cui la si fa. È come quando scrivi un diario: certamente non stai a pensare a cosa può piacere o no agli altri, è segreto. È la tua storia, le tue cose. Come le vedi tu. Con la musica non si fa altro che rendere quel diario accessibile a tutti. Ad un Picasso sicuramente importava poco del giudizio altrui, ma lui aveva la sua visione delle cose che poi è diventata arte per il resto del mondo. Quindi, in senso lato, mi sento un po’ come Picasso.

 

Come ti immagini il tuo percorso musicale nei prossimi anni?

Sono una che ama esplorare continuamente, quindi sarà l’evoluzione di ciò che sono ora. Ho approcciato da poco nel mondo degli arrangiamenti ma sono piena di idee, vorrei creare un sound ed uno stile che sia riconducibile a me ed al mio modo di fare la musica. Il disco che farò uscire a marzo è il primo progetto creato interamente da me per quanto riguarda musica, testi e gran parte degli arrangiamenti. Ho fatto un esperimento e mi ritengo molto soddisfatta. Per il futuro si tratterà di affinare sempre di più le mie competenze e continuare a produrre musica, trattando dei temi in cui credo e trovare persone a cui la mia musica possa essere d’aiuto.