La pandemia ha cambiato la nostra percezione della musica, da diversi punti di vista: due anni (quasi) senza concerti hanno rivelato al grande pubblico l’importanza del lavoro dietro le quinte che sostiene i musicisti, così come l’importanza del lavoro di chi suona uno strumento. Un periodo in cui sono emerse problematiche strutturali – industriali e legislative – ma anche e soprattutto l’impatto di questi meccanismi sulle persone che vivono con e di musica.
Una nuova ricerca del Dipartimento di Psicologia dell’università di Torino si focalizza su una categoria e una dimensione specifica: i musicisti e il cambiamento del loro rapporto con la professione, a seguito di questo periodo.
La ricerca è condotta dai docenti Cesare Albasi, Martina Baiocchi, Marta Gallá: la fase pilota, ha previsto una serie di interviste in profondità a musicisti professionisti con almeno 10 anni di esperienza, residento in Italia. “I musicisti sono una categoria professionale poco studiata in generale, ma in particolare in Italia”, spiegano i ricercatori a Rockol. “Abbiamo realizzato una ricerca volta a dare parola ai musicisti, sia in riferimento al periodo pandemico, sia cogliendo l’occasione per studiare con strumenti scientifici gli aspetti psicologici di una professione così interessante, e che ci permette di comprendere il rapporto con quel bene irrinunciabile che è la musica da un punto di vista di chi la crea, la suona, la produce”.
Nei primi risultati della ricerca sono emerse quattro macro temi che aiutano a comprendere i cardini e la trasformazione della professione del musicista.
Il ruolo dello strumento
Il primo punto focale della ricerca è il ruolo dello strumento musicale: centrale, non solo dal punto di vista pratico ma anche psicologico. Per il musicista, “la sue stessa identità (professionale, ma anche come percezione di se stesso, e del valore di sé e della propria autostima) è mediata dallo strumento che diviene necessario per esprimere se stessi. lo strumento diviene una parte di sé, la propria voce”, spiegano ricercatori. Un valore aumentato dalla pandemia, dove lo strumento è diventato una sorta di ancora, ma anche con fenomeni di scoraggiamento, ansia da prestazione e, infine, influenzando i processi creativi.
Musicisti e aspetti manageriali
Il secondo tema è l’emersione della consapevolezza che il musicista deve occuparsi spese degli aspetti organizzativi e manageriali, anche se questi sono oggetto di professioni e anche se non si ha una formazione specificazioni: “L’enorme quantità di tempo ed energie che vengono prese da questa parte del lavoro del musicista è ragione di ansie e rabbie, che ci risultano ancora più comprensibili se immaginiamo la distinzione tra ‘suonare il proprio strumento’ come dimensione espressiva di se stessi e occasione di realizzazione personale, centrale nella rappresentazione di se stessi come musicisti, contrapposta a tutto quello che si fa ‘lontano dal proprio strumento’ vissuto come minaccia alienante alla propria stessa identità professionale ma che, invece, paradossalmente diventa parte cruciale della propria professione”, spiega la ricerca.
La didattica
Il terzo risultato è l’importanza della didattica nel percorso del musicista, “sia nella carriera professionale come elemento di stabilità economica”. Ovvero, la dimensione psicologica è lo spaesamento di fronte alla frammentazione metodologica e la mancanza di formazione all’insegnamento: “Ci si deve inventare questa parte della propria professione. Chi ha mostrato più attitudini in quest’area è riuscito a difendersi meglio dalla pandemia”, spiega la ricerca.
Il musicista come professione e come persona
Il quarto tema è il legame la professione del musicista e la persona: i musicisti, spiega la ricerca, lamentano “una grande sofferenza rispetto allo scarso riconoscimento sociale e politico, che si riflette in condizioni lavorative molto esposte a insicurezze e insoddisfazioni in termini economici, istituzionali, socio-culturali. E dato il legame suddetto tra i due aspetti dell’identità (professionale e personale), la mancanza di riconoscimento si può tradurre in crisi identitarie, perdite di fiducia, rabbie e depressioni, e dubbi sulla propria carriera, cioè uno sfuocamento di se stessi come persone, e non solo come professionisti”.
Il futuro, dopo la pandemia
“La pandemia ha fatto deflagrare questi aspetti strutturali della professione del musicista portandoli all’estremo”, concludono i ricercatori. “È ormai noto e condiviso il valore della musica, musicisti sono davvero un bene prezioso per il benessere e la salute di tutti. E se vogliamo mettere a fuoco i loro bisogni e le necessità della loro professione, sono necessarie ricerche e la realizzazione di studi scientifici a loro dedicati. Dalla nostra ricerca emergono alcune indicazioni chiare per poter descrivere in modo oggettivo il loro bisogno di tutele da più punti di vista, alcuni materiali e istituzionali, altri di ascolto e sostegno psicologico e psicosociale”.
Fonte: Articolo di Gianni Sibilla su Rockol