Una Roma che sembra tornare ai tempi del cotone anche se poi, nel DNA, siamo tutti figli del pop nostrano. Anche quando un disco finisce dentro un Tascam 8 tracce per una produzione digitale e casalinga. Parliamo con Luca Bocchetti che porta in scena un lavoro come “Vado mo’?”, un Ep digitale di 5 tracce dentro cui, a suon di un retrogusto di quella tanto citata dannazione spirituale, si celebra una leggerezza che fa il verso alla scanzonata filosofia romanesca. E in fondo questo dicotomia di gusti distanti anni luce, d’istinto facendo, restituiscono un bel risultato finale.
La canzone indie italiana passa sempre più verso decise direzioni di autoproduzione. Qui si respira totalmente il “Do It Yourself”. Come mai? Scelta o necessità?
Avevo il tempo e le risorse per entrare in studio e fare tutto come da manuale, ma continuavo ad essere ossessionato da i primi dischi di Elliott Smith, dalla potentissima ingenuità di Daniel Johnston e dai flirt lo-fi degli eroi della mia tarda adolescenza tipo Graham Coxon e John Frusciante. E poi sono cresciuto col mito delle registrazioni pionieristiche delle 29 canzoni di Robert Johnson, dei dischi di Leadbelly. Insomma, l’ho fatto per un’illusione romantica di onestà, verità, rifiuto della confezione. C’erano un paio di etichette interessate ai brani, ma volevano smontare l’EP in singoli, occuparsi della produzione e che rifacessi tutto in studio: ho fatto un paio di conti e ho pensato che fosse più importante la mia battaglia contro i mulini a vento.
Che poi a dire il vero con Lucio Vaccaro passi a finalizzare tutto in studio. Se è vera la prima, questa seconda fase perché?
Lucio non è solo un amico e uno straordinario musicista e artigiano del suono, per me è famiglia. Affidarmi a lui non è come lavorare con qualunque altro bravo musicista e fonico, perché significa continuare a giocare in casa. E in ogni caso, anche Lucio, nel pieno rispetto della filosofia dell’EP, ha lavorato in home studio. Avevo bisogno delle sue competenze perché autoproduzione, DIY e lo-fi non sono una giustificazione per fare le cose in maniera approssimativa: si tratta di una linea di pensiero, una presa di posizione che richiede precise accortezze per non scadere nel dozzinale e nell’incomprensibile. Lucio ha fatto in modo che il mio approccio istintivo e selvaggio avesse una forma compiuta.
E allora parliamo del suono: sembra che abbia avuto assai poca importanza nella sua estetica o sbaglio? Anche questo atteggiamento è assai blues…
Al contrario. Un suono umile e senza patina, ripreso senza troppi accorgimenti, può essere un messaggio importante, così come il silenzio può essere una risposta. È come dire: sto cucinando rigatoni con la pajata, non il risotto con foglia d’oro di Marchesi. È vero, è un approccio che in passato dominava nel blues: i musicisti non prestavano troppa attenzione alla qualità della strumentazione perché non sapevano che cosa avrebbero avuto a disposizione nelle bettole in cui finivano a suonare, perciò era meglio abituarsi a lavorare con quello che capitava sotto le mani. Questo atteggiamento si riversava anche in fase di registrazione, le cui tecniche, peraltro, erano ancora primordiali. Credo che tutto si traducesse in una sorta di “daje, sòna”. Ecco, io volevo recuperare quello, quel “daje, sòna”.
Il blues del Tevere sembra una provocazione… un disco però che al popolo quotidiano deve molto. Una fotografia di vita allegorica o molto aderente alla realtà?
Io, scherzando, lo dico da sempre che Roma è blues. È blues e lo-fi. Sì, certo, Roma capoccia, Roma sparita, Roma bella e tutte quelle cose lì…ma oggi è bella in un modo triste, sporco, indolente, malinconico e trascurato. C’è una dimensione allegorica molto marcata, tipo in “Teverend”, un gospel pagano dove la piena del fiume dovrebbe portare al “nuovo cielo e alla nuova terra” dell’Apocalisse di Giovanni, ma c’è anche molta ordinarietà e vita reale, fatta di rientri a casa, portinai, locali che chiudono, bevute con un amico e gente che svaligia appartamenti. Mi interessa il dettaglio banale e terreno che rivela una visione, la lentezza e la noia del quotidiano che assumono un significato escatologico. Di questo materiale, Roma ne offre a palate.
La nostalgia regna sovrana. Questo disco vuol tornare indietro nel tempo anche nelle liriche e nei messaggi. Ti fa paura il futuro?
Non ho paura del futuro, ma, come molti, banalmente, ne ho una visione grigia. Le risorse sono agli sgoccioli, la disparità sociale ed economica è terrificante, il quadro climatico è quello che è, ma tutto questo diventa ancora più interessante se consideriamo che il q.i. medio della popolazione mondiale sembra essere in parabola discendente. Insomma, mentre diventiamo più stupidi, il nostro habitat si fa più ostile. Senza degenerare in scenari post-apocalittici, credo che, come minimo, il futuro sarà riconoscere le vere priorità, reimparare a cavarsela e fare del proprio meglio con molto poco a disposizione. Tipo come ho cercato di fare con “Vado mo’?”
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