Federico Russo mancava dalle scene da circa sette anni e ora, Novadeaf, torna con un disco dalla copertina in bilico tra il glam rock e una brochure classicheggiante. In fondo è l’uomo il vero centro, con le sue fragilità che anche la violenza è di umana natura, così il suo istinto, in ogni direzione e ragione. Si intitola “Bellicus” questo nuovo disco, primo a firma di Novadeaf… forse primo che segna un cambio di rotta nel suono che dalle trame alternative passano in un pop internazionale, molto dedito ai suoni sintetici, liquidi, compatti. Ci troviamo nelle trame inglese proprie di un certo glam sociale.
Evoluzione di Federico Russo in questo progetto Novadeaf. Ci incuriosiscono sempre le evoluzioni… e poi questo moniker… partiamo dallo stile: come arrivi al pop digitale di ampie vedute?
Novadeaf è sempre stato un progetto pop, o meglio che puntava a un pubblico non di nicchia ma il più vasto possibile. Non mi piace la musica “per pochi”, ho ascolti molto classici, si potrebbe anche dire mainstream, e penso che l’universalità in musica sia una bellissima qualità. L’elettronica è arrivata organicamente, un modo per rinnovare il mio linguaggio quando la chitarra sembrava non bastare più.
E poi Novadeaf… che preciso significato porta con se?
Nei primi mesi la band si chiamava Nova (omaggio all’omonimo super-eroe Marvel) ma presto scoprii che nel mondo esistevano milioni di band con lo stesso nome. Allora decisi che avrei abbinato a Nova un secondo termine completamente a caso per essere sicuro che il termine risultante fosse assolutamente originale. In realtà poi l’abbinamento Nova + Deaf si è rivelato più evocativo di quel che mi aspettavo. Trovo sia curioso che di tutti i termini abbia scelto proprio quello che riguarda una menomazione e proprio la menomazione legata all’udito. C’è qualcosa di tragico sotto. Credo di aver scritto anche una canzone intitolata “Novadeaf”. Ma parliamo di roba di quasi venti anni fa…
Elettronica che molto deve, a mio sentire, ad uno scenario inglese, glamour sicuramente… sbaglio?
Non so se sia glamour ma di certo mentre registravo “Bellicus” nelle orecchie avevo Thom Yorke e gli Atoms for Peace ma anche “Some great reward” e “Violator” dei Depeche Mode, Kendrick Lamar e “Black Tie White Noise” di David Bowie. Mi piace avere sempre un orecchio alla modernità e un orecchio al passato.
E tanto c’è anche in direzione altra, si pensi al sapore afro di “TLA” o al veleno che c’è dentro la chiusa “No Quarter (Bellicus)”. Chi è diventato musicalmente oggi Federico Russo?
Federico Russo oggi è un musicista che non crede nelle divisioni e nelle gerarchie, nell’esistenza di una musica alta e una musica bassa e quindi si prende la libertà di ispirarsi ai Radiohead e a Beethoven, a Michael Jackson e a Bach, a Robert Miles (c’è anche lui in TLA) e a Ravel.
E la pandemia che in questo tempo assurdo ha invaso anche questi due anni di lavoro? In che modo ha contaminato il tuo punto di vista sul suono?
Non ha contaminato il suono ma sicuramente la pandemia ha influenzato la realizzazione e la pubblicazione del disco, sia nel bene che nel male. Il lockdown del 2020 ha interrotto le registrazioni a metà, le ho potute riprendere solo diversi mesi dopo. Nel frattempo, però, in quegli stessi mesi nasceva la Beng! Dischi, la label che poi ha pubblicato “Bellicus”. Se avessi terminato l’album prima probabilmente avrei finito col pubblicarlo con un’altra label e chissà come sarebbe andata in quel caso…